AN ANTHOLOGY OF THOUGHT & EMOTION... Un'antologia di pensieri & emozioni
הידע של אלוהים לא יכול להיות מושגת על ידי המבקשים אותו, אבל רק אלה המבקשים יכול למצוא אותו

L’anno prossimo a Gerusalemme?

L’identità ebraica e il mito del ritorno

di Richard Shusterman
L’authenticité juive consiste à choisir comme juif, c’est à dire
à réaliser sa condition juive. Le Juif authentique abandonne
le mythe de l’homme universel: il se connait et se veut dans
l’histoire comme créature historique et damnée; il a cessé de
se fuir et d’avoir honte des siens.
(Jean-Paul Sartre 1954, p. 166).
Il problema di un’identità ebraica “laica”

Se la questione centrale della filosofia consiste nel sapere come si dovrebbe vivere, come intendere questo “si”? Sicuramente non come puro spirito, perché esiste un aspetto specificamente somatico della vita filosofica. L’io dotato di un corpo ha anche una collocazione sociale e culturale. Lungi dall’essere l’espressione della ragione o dell’uomo universale, il filosofo è oggi riconosciuto come un individuo dotato di un corpo, di un sesso e di un’etnicità specifiche. Tali differenze vissute dovrebbero sicuramente incidere in maniera diversa sulla filosofia.

Dedico queste pagine all’etnicità, non semplicemente per rendere un omaggio a questioni relative alla differenza, ma perché l’etnicità ebraica è stato un fattore determinante nella mia stessa vita filosofica. Questo spiega perché ho inizialmente intrapreso lo studio della filosofia come un immigrante a Gerusalemme e successivamente sono ritornato negli Stati Uniti per insegnarla. Essa spiega anche perché ora scrivo queste parole a Berlino, mentre sto controllando una copia anteriore del testo composta a New York. Se la filosofia è una pratica di vita all’insegna dell’auto-esame e dell’auto-creazione mirata alla ricerca di una vita migliore, un discorso centrato esclusivamente sulle questioni della vita altrui sarebbe incompleto, se non addirittura disonesto. L’interrogazione intorno all’identità ebraica solleva questioni relative alla mia stessa identità mentre mi sforzo di capirla e ricostruirla.

Allora come si dovrebbe vivere come ebreo? Non abbiamo bisogno di un tipo come Socrate per dirci che questo dipende da come viene definita l’identità ebraica. Neanche abbiamo bisogno di un lessicografo per rilevarne le definizioni contrarie. L’identità ebraica (come altri concetti più chiaramente onorifici come “giustizia”, “democrazia” o “arte”) è essenzialmente contestata; essa è stata per molto tempo l’oggetto di intensi dibattiti e scontri nella legislatura e nei tribunali israeliani. Qualsiasi tentativo di fornire una definizione neutrale sarà priva di contenuto. Siccome esistono numerosi e diversi modi di essere ebreo, come si deve realizzare la propria identità ebraica?

Una parte della risposta a questa domanda dipende certamente dalle contingenze legate al proprio background e ai contesti personali. Per adoperare una nozione di William James, alcune scelte di auto-realizzazioni ebraiche non sono “opzioni di vita” per ogni ebreo. Il figlio di Admor di Sedogora non può esprimere la propria ebraicità nello stesso modo di Woody Allen o di un membro ateo di un kibbutz. Al contrario, malgrado qualche rara e drammatica conversione all’ortodossia religiosa, gli ebrei americani allevati in maniera laica non realizzano la loro identità ebraica attraverso una vita religiosa ortodossa. Infatti, esprimere la propria ebraicità soprattutto attraverso una qualsiasi pratica religiosa ortodossa costituisce un’opzione tutt’altro che attraente per un ebreo non praticante. Più la religione diventa centrale, meno l’etichetta di “laico” sembra appropriata. Neanche molto allettante è la nozione di partecipazione alla “comunità ebraica”, perché è sempre in qualche modo connessa alla sinagoga e quindi, per estensione, alla religione. Quale modo significativo di auto-espressione ebraica rimane per un ebreo “laico” nella cultura laica americana (che resta chiaramente cristiana) all’infuori di intrattenersi sulla “cucina ebraica” e raccontare le barzellette ebraiche? Dato che questo aspetto riesce a soddisfare solo degli appetiti superficiali, l’ebreo “laico”, perplesso e avido, si è spesso rivolto a Israele.

Durante gli anni Sessanta e primi anni Settanta, quando Israele sembrava uno Stato socialista progressista e promettente e, per altri versi, una società con aspettative crescenti, più unita e più giusta di oggi, questa nazione appariva come il posto migliore per realizzare la “laicità” ebraica. Per gli ebrei laici della diaspora, Israele offriva l’unica opportunità per una ridefinizione radicale e romantica, un modo di essere ebreo in maniera significativa senza religione e oltretutto con il vantaggio tanto desiderato di non essere più considerato come appartenente a una minoranza etnica. Aliyah (ossia immigrazione, letteralmente “ascesa”, verso Israele) divenne il progetto preferito per coloro che andavano alla “ricerca di se stessi” sia come individui sia come ebrei. “L’anno prossimo a Gerusalemme” (la preghiera con cui ogni anno termina la festa della Pasqua) fu trasformato da un mitico sogno di ritorno in una concreta proposta d’immigrazione all’insegna della formazione di un nuovo e solido io in una terra promessa, una casa stabile dove poter finalmente guarire dallo sradicamento senza riposo dell’ebreo eternamente errante.

Questo testo spiega perché la promessa si dimostrò illusoria, perché il sionismo e l’immigrazione in Israele non possono essere considerati come una semplice soluzione alla questione dell’identità ebraica “laica”, nonché come il mito del ritorno dovrebbe essere reinterpretato nello spirito più flessibile della postmodernità. Dato che parlerò soprattutto da un punto di vista personale, dovrò affrontare l’accusa che questo non dovrebbe avere alcun posto nel discorso filosofico.

Israele: andata e ritorno

“Che importa chi parla?” domanda Foucault, contestando la posizione dell’autore come colui che determina il significato. Ma nel campo discorsivo che contesta l’identità ebraica e il sionismo, è essenziale determinare il punto di vista dell’autore; e l’ingiunzione di dichiarare da dove si proviene può essere presa in un senso letterale, geografico. Anche se è soltanto per raggiungere un livello di riflessione critica, si dovrebbe dichiarare chiaramente la propria prospettiva tenendo conto del proprio ambiente ebraico. A cosa è dovuta allora la mia reticenza? Le osservazioni autobiografiche sono segno di cattivo gusto e fuori luogo in un saggio filosofico? Perché ciò che è personale dovrebbe essere tabù, anche in un saggio che si occupa di etnicità e di identità personale?

Questo tabù nei confronti del personale e del contingente riflette il pregiudizio fortemente radicato nella filosofia a favore dell’universalità e della necessità. Quando si esplora l’identità personale, si ricerca un nucleo necessario sul quale si basa tutta l’intera individualità (selfhood), un fondo essenziale di personalità particolare in qualcosa come una mente o un’anima dotati di un corpo. La premessa tradizionale della filosofia era che dovesse esserci un principio necessario che determina l’identità umana. Ma dietro a ciò stava in agguato una premessa ancora più profonda, secondo cui se l’identità fosse una questione di contingenza piuttosto che una necessità ontologica o razionale, allora sparirebbe dalla personalità qualcosa di più profondo e di sublime, e si perderebbe la dignità di se stessi.

Una volta che abbiamo riconosciuto che l’io è socialmente determinato piuttosto che ontologicamente dato, si manifesta la sua natura contingente. Essendo stato modellato da diverse società che sono esse stesse i prodotti (in continua trasformazione) di contingenze storiche, l’io sociale deve essere un prodotto contingente. Tuttavia, tale contingenza non equivale a pura casualità e perciò non esclude le regole e il consenso su cui si basa la vita sociale. Quando si cerca di fondare l’io su qualcosa di più profondo del sociale, non si fugge alla contingenza. I nostri pensieri e desideri più personali rimangono strutturati da una lingua data, ossia un prodotto storico-sociale contingente. Qualsiasi io privato che si presume trovarsi sotto il linguaggio e la coscienza pubblici non sembra essere meno contingente, come la rappresentazione freudiana suggerisce quando la intende come una ragnatela tessuta da occorrenze e percezioni occasionali. Anche le nostre azioni fisiche elementari sono condizionate dalle abitudini e dal sistema neurale il cui percorso variabile dipende più dalle contingenze della nostra esperienza che da un istinto necessario.

Se l’io è un prodotto contingente, occorrerebbe, per giungere a una sua adeguata conoscenza, prendere seriamente in considerazione tali contingenze. La ricerca della sua identità dovrebbe favorire l’apertura verso un momento autobiografico a lungo rimosso nella filosofia, sebbene questa vi trovi senza dubbio una delle sue condizioni. I filosofi possono superare tale rimozione dell’io senza perdere il loro potere di parlare agli altri. Prendiamo in considerazione la prova dataci da Kierkegaard e Nietzsche, se non, più recentemente, da Derrida e Cavell.

Un secondo tema forte della teoria contemporanea dell’identità si associa alla contingenza, favorendo un approccio più personale: la costituzione dell’io attraverso l’auto-narrazione. Questo tema, che occupa una posizione centrale nella creazione dell’io, come sostengono Foucault e Rorty, struttura anche l’idea più tradizionale, socialmente condizionata, difesa da Charles Taylor e Alasdair MacIntyre. Se ci aiutiamo a determinare chi siamo grazie alle storie che raccontiamo su noi stessi, allora siamo sicuramente autorizzati a elaborare riflessioni teoriche su noi stessi, parlando in prima persona e sulla base delle nostre esperienze. Inoltre, se la filosofia è una pratica di vita personale diretta al miglioramento di se stessi attraverso la comprensione di se stessi, allora certi dettagli della propria vita sicuramente acquistano rilevanza per l’analisi. E quali dettagli, in particolare? Anche questo, ovviamente, è contingente, determinabile solo attraverso un’interpretazione filosofica concreta, sebbene certi dettagli (come il genere e l’identità) sembrino essere più significativi di altri (come, ad esempio, il numero della previdenza sociale oppure il cognome da nubile della propria madre).

Ovviamente, la mia analisi personale dell’identità ebraica non potrà essere valida per ogni ebreo, figuriamoci per ogni singolo essere umano. Ma neanche lo può essere la maggior parte della cosiddetta etica universale, nonostante lo sia più dell’autobiografia camuffata di cui parla Nietzsche. Sebbene la mia analisi personale dell’identità ebraica sia rivolta a coloro che sentono più da vicino le stesse difficoltà dell’auto-comprensione e dell’auto-definizione ebraica, alcuni dei suoi aspetti possono essere applicati anche ad altre etnicità e soprattutto a quelle minoranze cui è pertinente la categoria dell’“alterità”: soprattutto coloro che condividono con gli ebrei un’identità complessa e diasporica. Ecco, quindi, un breve riassunto autobiografico a partire dal quale queste riflessioni sono sviluppate.

Sono nato a Philadelphia da una famiglia ebraico-americana di estrazione medio-borghese. La mia famiglia non era né religiosamente osservante (si pregava solo in occasione delle festività principali) né politicamente sionista (le attività ebraiche erano rivolte alla comunità ebraica americana). Quando ero giovane fui espulso dalla scuola ebraica a causa dei miei forti istinti laici e ribelli. Ma, non molto tempo dopo, all’età di sedici anni, mi ritrovai in Israele, dato che lo stesso temperamento ribelle (sulla scia dello spirito rivoluzionario della fine degli anni Sessanta) mi aveva portato a lasciare la mia casa e il mio paese. Israele prometteva l’emozione dell’auto-definizione attraverso un’esotica avventura ebraico-socialista e offriva altresì un caloroso senso di appartenenza a una comunità organica e piena di sostegno. Questa accoglienza si esprimeva in maniera ancora più eclatante grazie ai generosi incentivi finanziari che tramite la Jewish Agency offrivano sostegno economico e borse di studio accademiche. Non meno allettante era la straordinaria bellezza naturale e umana di Israele. Rimasi lì per quasi vent’anni: studiando e insegnando nelle sue università; servendo il paese come ufficiale del suo esercito; popolandolo con tre figli; trasformandolo nella mia nuova casa e nel mio nuovo paese.

Nella realizzazione dell’imperativo sionista dell’aliyah verso Israele, sono certamente diventato più consapevole e più a mio agio nel mio essere ebreo. Più esattamente, trovai un modo di essere ebreo che mi consentiva di essere trasparente e di sentirmi a mio agio: la vita di un ebreo israeliano laico. In quanto ebreo, fui automaticamente naturalizzato attraverso la “legge di ritorno”, la principale legge dello Stato d’Israele, che garantisce il diritto di cittadinanza a tutti gli ebrei che tornano nella loro antica terra. Ovviamente, in senso letterale, né io né nessun altro degli immigranti così naturalizzati eravamo veramente tornati in Israele, dato che non eravamo mai stati lì prima. Quando arrivai per la prima volta, questa era la mia patria solo in senso mitico e dubbio. Per tornarvi veramente sarei dovuto andare altrove, indicando così il profondo legame concettuale tra la partenza e il ritorno. Una mia eventuale partenza da Israele implicava un ritorno nella mia patria più letterale, l’America.

Nel 1985 tornai a Philadelphia in seguito a un incarico di un anno come visiting professor presso la Temple University. Per un insieme di complesse circostanze personali e questioni istituzionali decisi di rinunciare al mio posto fisso come professore universitario in Israele e di prolungare il mio soggiorno negli Stati Uniti. Per l’ufficio del censimento israeliano non ero più un immigrato ma un emigrato; dal punto di vista sionista, non ero più uno dei pellegrini redenti che ascendono alla piena identità nazionale ebraica (olim), ma uno dei caduti (yordim) che vivono in quello che viene definito “esilio” (golah). L’esperienza della mia identità è molto più complessa e equivoca. Avendo contribuito a forgiare il modo di essere maschile, Israele continua a occupare un posto fondamentale nel mio modo di essere; è inoltre il paese dei miei tre figli. Sogno spesso di risistemarmi lì e di riattivare il mito del ritorno, che sembra così fondamentale per l’identità ebraica. Ma tale ritorno, in contrasto con il mio aliyah ufficiale, sarà un ritorno vero e proprio, oltre che mitico, perché già sarò stato lì prima.

Identità e narrazione

Tre aspetti di rilevanza filosofica emergono dalla mia storia. La prima è che le nostre nozioni di identità e di azione (agency) dipendono dalla narrazione. Possiamo definire l’io solo a partire dalle narrazioni che lo prendono in oggetto. Definirlo solo in termini delle sue azioni non funzionerà, poiché il senso stesso (o la descrizione corretta) di ogni azione non è contenuto in se stesso, come se fosse un atomo, ma dipende dal contesto narrativo in cui compare. Ecco perché anche un pensatore conservatore come MacIntyre insiste “su un concetto di io la cui unità risiede nell’unità di una narrazione”. Nessun’altra unità può fondarlo senza essa stessa dipendere da un’unità narrativa, dato che anche le storie fisiche e mentali più spoglie lo sono.

Ho trattato in altri scritti il problema dell’unità narrativa, questioni dell’integrazione dei ruoli e delle versioni conflittuali dell’io in una coerenza narrativa, nonché dell’unificazione di trasformazioni multiple del carattere in un senso coerente dell’io. La mia questione ebraica solleva un ulteriore problema che concerne la narrazione come modo per costituire l’unità dell’io: diciamo che si tratta della “undertermination dell’io attraverso il racconto”. Per qualsiasi forma aperta di eventi narrativi, dato un futuro indeterminato in virtù del quale questi eventi possono essere interpretati e data anche la reversibilità futura di interpretazioni narrative passate, esisterà sempre più di una forma di narrazione che possa adattarsi ai fatti dell’individuo. Questa pluralità di auto-narrazioni esaurienti solleva la possibilità di vivere con più di un tipo di io. In modo ancora più acuto, l’effettiva consapevolezza di futuri molto divergenti, e dunque di diverse narrazioni, non solo scuote l’idea fissa di auto-identità che uno può avere, ma nega l’esistenza di un senso univoco del significato di qualsiasi azione.

Per esempio, posso vedermi al ritorno nella mia casa americana dopo un’esplorazione giovanile in una cultura essenzialmente straniera; oppure posso vedere il mio attuale soggiorno in America (come avevo originariamente preventivato) come una parentesi per il mio miglioramento professionale, affinché potessi meglio servire una società meno sviluppata come quella israeliana, alla quale finirò per tornare. Lo stesso significato delle mie azioni, la definizione di me stesso come agente, cambia significativamente a seconda di come si racconta la storia: il mio coinvolgimento nella vita americana è un progetto permanente e centrale oppure è semplicemente una convenienza temporanea finché non ritorno in Israele? Non è semplicemente che non conosco la risposta con certezza cartesiana, è che non conosco il futuro. Ciò che conta, piuttosto, è la coscienza chiara e dolorosamente scissa di vivere due auto-narrazioni radicalmente divergenti, perché entrambe sono abbastanza probabili e non esiste alcun modo di sapere quale sia quella vera. Poiché non ne esiste solo una vera. Come faccio, dunque, a sapere come posso realizzare la mia identità ebraica se non so chi sono? Ma come faccio a sapere chi sono, se non so come riuscirò (oppure non riuscirò) a realizzare la mia identità ebraica?

Se l’io è costituito dalla narrazione e non esiste una sola vera narrazione, allora non esiste un solo vero io. Ciò non significa che qualsiasi auto-narrazione valga quanto un’altra; alcune sono chiaramente migliori non solo per spiegare l’azione passata, ma per creare un io migliore dal punto di vista proiettivo. Inoltre, sul piano logico primitivo, bisogna presupporre un io unico come referente necessario, se si vuole parlare di auto-narrazione (e in particolare di auto-narrazioni divergenti). Ma questa nozione logica minimale dell’io come “soggetto di predicazione” non ha una vera sostanza. E neanche assicura un io sostanziale e coerente né preclude l’esistenza di io multipli che si identificano per predicazione per lo stesso soggetto logico. L’integrità sostanziale dell’io, la coerente pienezza di una vita, non possono essere garantiti dall’identità referenziale della logica; si tratta di un compito che appartiene all’arte di vivere.

Per quanto riguarda la mia questione ebraica, tale integrità rimane problematica e mi sento come un io piuttosto multiplo. Detto in parole povere, c’è un io israeliano (con un background o una penombra americana) la cui identità ebraica è fortemente e chiaramente definita attraverso la cultura nazionale israeliana. Ma vi è anche un (recentemente rivendicato) altro io americano (con un’ombra israeliana), la cui identità ebraica è per lo più trascurata, che viene espressa solo indirettamente attraverso il suo background israeliano quando viene occasionalmente messa in primo piano nella mia vita americana. In breve, nonostante l’aliyah mi abbia reso più sicuro nei riguardi della mia identità israeliana, non è riuscito a risolvere il mio problema di essere un ebreo americano laico; esso lo ha solamente aggirato permettendo all’ebraicità di esprimersi tramite l’intermediazione dell’appartenenza a Israele.

Tensioni Israele/Golah

Infatti l’aliyah ha reso molto più difficile vedermi come un ebreo americano e mettermi in rapporto con quella comunità. Attraverso i miei occhi di israeliano, l’esperienza ebraico-americana sembra avere sempre un non so che di falso o di superficiale. Mentre prendevo parte alle celebrazioni del Yom Kippur in una sinagoga progressista proprio per esprimere la mia solidarietà con l’ebraismo americano, a cui mi sarei dovuto sentire più vicino, provai una sensazione di estraniamento dovuto al fatto che la lingua della preghiera fosse l’inglese anziché l’ebraico. Sebbene non sia religioso, la mia esperienza vissuta a contatto dell’ebraico e il suo impiego nazionale per scopi liturgici (familiare anche agli ebrei laici attraverso l’istruzione pubblica, i mass media, e le cerimonie ufficiali – comprese le troppe sepolture militari) fece sì che le preghiere tradotte suonassero vuote e non autentiche. Ancora peggio, quelle frasi tradizionalmente ricche e poeticamente potenti come Avinu, Malkenu (“Nostro padre, Nostro re”) erano state sminuite in espressioni come “Nostro genitore, Nostro sovrano” per essere più conformi alla sensibilità americana verso questioni inerenti al genere, una forma di sensibilità della lingua inglese che apprezzo molto. (Questo forse significa che il mio io israeliano è sessualmente più discriminante della mia controparte americana? Penso che lo sia, anche se questo non cambia la mia opinione riguardo all’inautenticità della traduzione).

Il fatto che gli ebrei americani condividono il mio amore per Israele dovrebbe aiutarmi a identificarmi con loro. Ma dato che la loro comprensione di Israele sembra estranea e vuota, mi urtano i loro tentativi di coinvolgermi nella comunità ebraica americana in nome del mio essere israeliano. L’ostacolo che l’esperienza israeliana produce nei confronti dell’acquisizione di un’identità ebraica americana non è una mia personale aberrazione. È noto che gli yordim israeliani non riescono ad assimilarsi alla comunità ebraica americana e preferiscono formare la propria. Le uniche eccezioni sembrano essere gli “israeliani professionisti” coinvolti nell’istruzione ebraica o negli “affari” della comunità ebraica. Ma questi ultimi tendono a essere più religiosi che “laici”; i loro motivi di interazione con l’ebraismo americano tendono a essere più professionali che sociali; e questa interazione è veramente circoscritta agli ambiti professionali.

Ecco dunque la seconda lezione che ho tratto dalla mia esperienza: il conseguimento di un’identità israeliana (laica) attraverso l’esperienza in Israele è praticamente inconciliabile con il raggiungimento di quella ebraico-americana. La ragione non va individuata nell’incompatibilità di unire la nazionalità israeliana con quella americana; infatti non ho mai avvertito forti tensioni provocate dalla mia duplice nazionalità. Il problema sta piuttosto nel fatto che il concetto di identità ebraica è sovradeterminato e che i suoi due principali fattori determinanti – ossia la nazionalità e la religione – sono in profonda tensione tra di loro. Questo conflitto è infelicemente fin troppo evidente nella continua discordia esistente tra interessi nazionali e religiosi che divide apertamente l’intera società israeliana; non bisogna sorprendersi perciò se lo si ritrova anche in ogni singolo ebreo.

Secondo lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua, la tensione fondamentale tra le definizioni nazionali e religiose dell’identità ebraica fornisce la ragione principale per cui la vita in golah sia stata così attraente, malgrado “fosse la fonte dei più terribili disastri che potessero capitare al popolo ebraico”, e si trovi tuttora nella più terribile “condizione nevrotica” (Yehoshua 1983, pp. 15, 16). Sebbene l’esilio fosse stato originariamente imposto al popolo ebraico, esso divenne la scelta privilegiata per la sua sopravvivenza, attenuando quel conflitto che, fin dai tempi biblici, minacciava di dividerlo e di distruggerlo. In esilio non vi era alcun bisogno di risolvere senza equivoci il dibattito religioso-nazionale, per determinare se la nazione ebraica dovesse essere composta da credenti osservanti della religione ebraica. Mancava uno Stato organizzato in grado di fornire la struttura necessaria per imporre una tale decisione. “La struttura ebraica nel golah è essenzialmente volontaria. L’ebreo è, per essenza, libero di dirigere il fervore del suo ebraismo in qualsiasi modo lo desideri”, e (se posso aggiungere) è anche libero di non avere alcun tipo di fervore. “Il golah ha liberato i sistemi nazionali e religiosi dalla necessità di rinnegarsi reciprocamente”, non solo perché rese inapplicabile quel decisivo binomio conflitto-risoluzione, ma anche perché trasformò tutto questo conflitto in qualcosa di indesiderabile e di poco saggio. L’unità ebraica aveva bisogno di trovarsi di fronte alla minaccia di una nazione ospite politicamente più potente e tipicamente ostile, affinché “le dispute riguardo al contenuto dell’identità ebraica fossero messe in secondo piano” (pp. 24-25).

Nonostante Yehoshua riconosca le attrazioni e le profonde radici del golah nella storia ebraica, egli lo condanna come “una scelta nevrotica, dolorosa e compulsiva”, uno stato patetico di “schizofrenia”. Quando insiste che l’identità ebraica dovrebbe essere realizzata univocamente attraverso una vita nazionale in Israele, Yehoshua spera “di eliminare il golah come una possibilità di vita” per la vita ebraica (pp. 22, 31, 33). Per raggiungere tali obiettivi, Israele dovrebbe affermare un’attitudine d’indipendenza altezzosa dal golah, insistendo sulla necessità dell’aliyah e rifiutando di legittimare il golah oppure attraverso l’accettazione del suo aiuto finanziario oppure inorgogliendosi dei propri risultati.

L’appoggio di Yehoshua al sionismo si basa su tre opposizioni insufficientemente esaminate. In primo luogo, il golah viene necessariamente percepito da tutto il pensiero “autentico” ebraico come una situazione “anomala”, incompleta e decaduta, opposta alla redenzione della “vita sovrana, normale in Eretz Yisrael”. Da qui la tensione nevrotica del golah – malgrado lo rifiutiamo spiritualmente, in effetti cerchiamo di preservarlo (pp. 22-23). In secondo luogo, mentre critica giustamente il filosofo religioso israeliano Yishayahu Leibowitz per avere pensato che gli ebrei fanno le cose (per esempio mangiare, vestire e copulare) in modo essenzialmente “differente dagli altri popoli”, Yehoshua colloca, senza alcuna digressione, il suo stesso essenzialismo discriminante: “L’essenza della nostra vita in Israele è diversa da quella della vita del golah, e tali differenze non dovrebbero essere nascoste” (pp. 26, 34).

Queste differenze così essenziali e definitive, tuttavia, non sono chiaramente articolate. E non c’è da meravigliarsi. Perché non esiste un’essenza che determini il complesso multiculturalismo che divide la vita israeliana, né i molteplici stili di vita ebraici sparsi nei diversi paesi in cui gli ebrei si trovano nella condizione del golah o della diaspora. Tuttavia, la dichiarata radice della presunta differenza essenziale forma la terza premessa fondamentale di Yehoshua. La vita in Israele è basata sull’indipendenza, mentre l’esilio è una servitù nevrotica. “Il sionismo è un processo di auto-liberazione dalle paure dell’indipendenza”, e il golah rappresenta “il rifiuto degli ebrei ad accettare l’indipendenza e la normalità” (p. 28).

Tutte queste premesse insieme generano un sionismo radicale mirato a un progresso lineare verso un’unità fissata una volta per tutte e una chiusura definitiva con il ritorno finale di tutti gli ebrei in Israele. Interrogando queste premesse con l’impiego di strategie postmoderne, cerco un modello migliore e più flessibile per l’ideale sionista del ritorno. Per fare ciò, mi rivolgo ora al terzo punto messo in evidenza dal mio resoconto biografico: l’interdipendenza concettuale di aliyah e golah che indebolisce il totale privilegio del primo.

Dipendenza Israele/Golah

In base alla logica della complementarietà, non vi può essere alcun ritorno senza partenza, dunque nessun aliyah senza golah. Non si tratta di una banalità. Se l’aliyah costituisce un mito essenziale per l’identità ebraica, allora non solo la presenza del golah ma la stessa vita nella diaspora diventano le precondizioni della messa in opera dell’aliyah, che rimangono fondamentali per il suo significato. La nozione di origine o di patria non possono avere alcun senso senza le idee opposte di seguito e di terre straniere; il ritorno in patria non ha alcun significato senza l’assenza o la partenza da quella terra.

La tradizione ebraica, tuttavia, unisce l’aliyah e il golah in modi molto più ricchi di una semplice interdipendenza concettuale attraverso una definizione differenziale. L’idea che l’identità ebraica venga realizzata nell’aliyah – in un movimento che va dal golah verso Israele – serve come mito fondante e formativo del popolo ebraico. Ricordiamoci che Abramo, il primissimo ebreo, nacque fuori d’Israele, e che il suo aliyah verso Israele fu fondamentale nel suo patto con Dio per la creazione della nazione ebraica. Ma Abramo divenne ben presto anche il primo yored, partendo per l’Egitto dove vi era la carestia, nonostante più tardi facesse ritorno in Israele. Questo modello fu ripetuto da Giacobbe e dai suoi figli. Solo nel golah egiziano gli ebrei riuscirono a divenire un popolo numeroso (nonostante fossero ridotti in schiavitù), ottenendo almeno dal punto di vista demografico, ma non ancora da quello politico, lo status di nazione.

Solamente nell’esilio, come dimostra la storia dell’Esodo, gli ebrei riuscirono a ottenere uno Stato e a fondare la loro religione. La Legge fu a loro data nella regione selvaggia del Sinai, dove inoltre errarono per quarant’anni per ottenere un’unità nazionale tale da consentire loro di entrare in Israele. Mosè, fondatore della religione ebraica e redentore del suo popolo ridotto in schiavitù, fece tutto il suo lavoro mentre era nel golah e non riuscì mai a raggiungere la terra promessa. Significativamente, le più importanti feste nazionali di Sukkoth, Pasqua e Shavout (distinguendole da quelle più strettamente religiose come Rosh Hashanah e Yom Kippur) hanno a che fare con l’esperienza ebraica nella situazione selvaggia del golah anziché con il vero Israele, e costituiscono le tre festività di pellegrinaggio (aliyah) verso Gerusalemme o Sion.

Fin dall’inizio perciò, il golah costituisce quella base necessaria che consente l’auto-realizzazione ebraica attraverso l’aliyah. Nonostante fosse già evidente fin dai primi tempi biblici, il suo ruolo nella definizione della vita ebraica e nella costituzione dello spirito ebraico divenne via via più dominante durante i duemila anni di esilio. Anche Yehoshua riconosce “come il golah sia così profondamente legato all’essenza di un ebreo”, malgrado insista che questa sia una condizione “anomala” e “nevrotica” (p. 16). Ma in termini di storia ebraica, il golah rimane più una regola che un’eccezione anomala, e il suo ruolo è stato molto più di una sopravvivenza pragmatica, che ha contribuito riccamente alla religione e alla cultura ebraica. Non può essere dismesso come inautentico, poiché è proprio questo a strutturare l’autenticità dell’aliyah.

La premessa di Yehoshua che riguarda la differenza culturale essenziale è ugualmente impossibile da difendere. La vita israeliana è chiaramente differente dalla vita in altri posti (la maggior parte dei paesi, dopo tutto, sono evidentemente differenti). Ma a parte la lingua ebraica e un’intensa consapevolezza di sicurezza militare dovuta alla forte presenza araba circostante, forse l’unica differenza “essenziale” tra la vita laica in Israele e negli Stati Uniti è l’autorità religiosa oppressiva e imposta a livello nazionale che Israele fa rispettare e che lo stesso Yehoshua vorrebbe indebolire.

Se Israele possa (o debba) ottenere una cultura secolarizzata indipendente tanto dalla tradizione ebraica quanto da culture straniere costituisce una questione scottante nella storia delle sue politiche culturali. Non è possibile in questa sede riassumere questo dibattito per sfidare il presupposto di Yehoshua secondo cui esiste una pura cultura israeliana essenzialmente differente e privilegiata rispetto ad altre forme di vita ebraica. È sufficiente ricordare che la cultura israeliana secolarizzata è sempre stata modellata dall’influenza straniera. Le sue canzoni e i suoi balli tradizionali derivano soprattutto dalle tradizioni che gli immigranti importarono dal golah, in modo particolare dall’Europa orientale e dalle culture arabe. Anche le sue belle arti sono chiaramente d’ispirazione europea (come ad esempio il teatro moscovita e la pittura parigina). L’attuale cultura israeliana assorbe e copia sempre di più quella americana, non solo nelle arti e nei mass media, ma anche la cultura di consumo della vita quotidiana. Per la maggior parte degli ebrei laici, l’America rappresenta non solo il paradigma di prodotti di buona qualità, ma l’ideale della bella vita.

Perciò, paradossalmente, l’assimilazione alla cultura laica israeliana significa vivere come un americano. I docenti universitari israeliani non fanno alcuna eccezione. Per ottenere il posto in Israele, si deve pubblicare in inglese e collaborare con riviste e editori che sono per lo più collocati negli Stati Uniti. Gli studiosi israeliani inseguono la gloria professionale tentando di ottenere un incarico presso un’università americana durante il loro anno sabbatico (che non viene quasi mai trascorso a casa). Questo sogno americano è così forte e desiderato che ha generato una barzelletta su un nuovo tipo di laurea da ottenere dopo il B.A., l’M.A. e il Ph.D. Si tratta del G.T.A., che equivale a “Going to America” (andare negli Stati Uniti). Anche io sono stato coinvolto in questo vortice paradossale, guardando religiosamente Dallas alla televisione a Tel Aviv, perché si trattava della cosa israeliana da fare, malgrado lo guardassi a mala pena negli Stati Uniti. Ironicamente, l’inseguimento di un incarico a breve termine negli Stati Uniti, che provocò in seguito il mio apparente yeridah, fu dovuto soprattutto alle pressioni dei miei colleghi israeliani. Anche i miei colleghi più ammirati erano alla ricerca di incarichi americani per i loro congedi sabbatici, e io mi sentivo di doverli imitare e di dimostrare loro quanto valessi.

La forza di queste osservazioni dovrebbe essere ovvia. La vita israeliana è talmente pervasa da quella americana e da altre culture straniere che non è possibile fare alcun appello a un’essenza israeliana autentica, che possa essere autonoma dal golah e che renda quest’ultimo infondato o inautentico per la vita ebraica. Ma neanche la cultura americana può dichiararsi pura, dato che è un ibrido di diverse culture nazionali arrivate in seguito a varie e successive ondate migratorie (qualche volta dovute alla schiavitù). Se la cultura americana pervade Israele, non dobbiamo dimenticare che lo stesso mix multiculturale dell’America include l’hora e lo yored.

Una tale perdita di tratti culturali marcati indebolisce il discorso del sionismo radicale che si appoggia sulla differenza, che costituisce il motivo per cui Yehoshua si scaglia contro il crescente assorbimento del golah nella cultura israeliana, insistendo che dobbiamo mantenere una distanza e una divisione tra questi.
Recentemente Israele è diventata una presenza troppo familiare nel golah, soprattutto negli Stati Uniti. Paradossalmente, non è più necessario immigrare in Israele, ed è possibile acquisire degli stralci abbastanza significativi della realtà israeliana nello stesso golah. L’aura di distanza e di mistero che circondava Israele è divenuta via via più sfocata (…). Dobbiamo a tutti costi ristabilire un certo sentimento di alienazione tra il golah e Israele – un disimpegno controllato (p. 32).
I numerosi ebrei americani (e israeliani espatriati) che passano regolarmente le vacanze in Israele, e le legioni di israeliani che invadono gli Stati Uniti, dimostrano che non è possibile avere alcun disimpegno controllato. Israele e il golah non sono solo concettualmente interdipendenti, ma si compenetrano a vicenda culturalmente.

I difensori dell’essenzialismo israeliano potrebbero sostenere che l’attrazione del golah non dipende dalla penetrazione della cultura israeliana, ma esattamente dal fascino della sua estraneità. Oltre a essere una considerazione falsa che fa sorridere, questa non riesce a spiegare perché gli israeliani preferiscano l’America a posti culturalmente più remoti. Ma questo suggerisce un’intuizione importante. L’auto-conoscenza e l’auto-espansione, così fondamentali per l’auto-realizzazione, implicano notoriamente l’esplorazione di una dimensione non familiare. Gli israeliani giungono spesso a un’auto-comprensione culturale solo quando si definiscono diversi dai paesi e dai popoli stranieri. Il viaggio verso l’ignoto, il desiderio di esplorare ciò che è estraneo, costituisce un mito centrale dell’auto-scoperta che è profondamente intrecciato al mito del ritorno. Ma questo non è un argomento contro l’importanza del golah. Al contrario. Siccome è un momento necessario nel mito di ritorno dell’aliyah, il golah rimane essenziale nell’identità ebraica, anche quando viene sionisticamente definito.

Come si può difendere il terzo punto di Yehoshua, ossia che solo Israele realizza “le cose per le quali noi (ebrei) combattiamo: la libertà e l’indipendenza?” (p. 34). La sua lunga e opprimente occupazione dei territori arabi conquistati non la rendono di certo un modello di libertà. Anche la sua popolazione ebraica è duramente relegata e assediata: non solo in termini di tasse punitive, minacce alla sicurezza, e restrizioni militari sulla libertà personale, ma, in modo molto più scioccante riguardo a ciò che concerne la libertà religiosa degli ebrei. Non esiste per niente una tale libertà: l’ortodossia religiosa gode di un’autorità indiscussa. I matrimoni e i divorzi stipulati dai rabbini riformisti o conservatori non sono riconosciuti; e, per gli ebrei, non esiste alcuna procedura civile per quanto riguarda i matrimoni e i divorzi. Neanche si ha la possibilità di scegliere quando si tratta di servizi funebri o servizi funerari alternativi. Al contrario, gli ebrei americani godono di tali libertà religiose, ma ancora più importante possono anche godere di una libertà “dalla” religione, che è impensabile in Israele. Spostandosi da un livello individuale a quello nazionale, vediamo che la stessa libertà di Israele è duramente limitata dalle dipendenze economiche, politiche e militari dal golah. (La guerra del Golfo lo rese quanto mai evidente). È probabile che il capitalismo multinazionale abbia ovunque eroso la stessa idea di piena autonomia nazionale. Ma non sono necessari argomenti così generali per contestare la pretesa che Israele sia l’unico posto dove gli ebrei sono veramente liberi.

Pluralità delle identità ebraiche

Il fatto di rifiutare le idee di Yehoshua sul golah non implica rifiutare l’aliyah come il miglior modo che un ebreo laico possa avere per realizzare la propria identità ebraica. Il golah costituisce un aspetto centrale dell’identità ebraica in parte anche perché lo è l’aliyah, poiché esso costituisce la premessa e il senso dell’aliyah stessa. Se il miglior modo di realizzare l’identità ebraica è attraverso l’aliyah, e se l’auto-realizzazione non si compie attraverso un atto unico, ma attraverso un’intera vita di attività, allora si verifica una possibilità davvero intrigante: una vita di continua auto-espressione e auto-realizzazione ebraica che si svolge attraverso dei cicli di yeridah e aliyah, partenza da Israele e ritorno a Israele.

Molti sono gli israeliani che praticano questa opzione, malgrado non sempre in maniera cosciente e programmatica, e vi sono buoni motivi per farlo. In primo luogo, tale opzione incorpora il ruolo storicamente centrale del golah come un momento necessario e fecondo nella determinazione dell’identità ebraica, favorendo perciò una nozione più ricca di ebraicità di quella tollerata dal rigido sionismo di Yehoshua. In secondo luogo, la sua struttura circolare offre una flessibilità e un’apertura che sono utili quando si ha a che fare con le contingenze della vita. Anziché rendere l’aliyah come un affare da eseguire “una volta e per tutte” (dove qualsiasi tornare temporaneo sui propri passi significa una caduta deprecabile), il riconoscimento di un movimento ciclico di partenza e di ritorno ci permette di integrare i periodi di vita in Israele e di vita nel golah che il destino potrebbe imporci, e di tesserli in una narrazione coerente di una vocazione ebraica ininterrotta.

Questo consente la costruzione narrativa di un io ebraico, ragionevolmente unificato e stabile, che si muove ripetutamente tra il golah e Israele, e che si sviluppa ed emerge arricchendosi in ogni fase. Adottando questa visione circolare di aliyah, non siamo obbligati a condannare una vita divisa tra Israele e gli Stati Uniti come una inevitabile frattura schizoide altalenante tra un israeliano redento e uno yored caduto. Non dobbiamo neanche trattare le fasi alternative attraverso una strategia suddivisa rigidamente in compartimenti e basata su un’oscillazione giudiziosa tra identità contraddittorie che devono rimanere distinte. Questi momenti opposti tra di loro possono invece essere visti come profondamente compenetrati attraverso una unificazione narrativa e un investimento esperienziale, proprio come lo sono Israele e la cultura del golah. Forse questa narrazione circolare dell’identità ebraica offre la forma più ricca di unità dell’io che l’esperienza postmoderna permetta – un’unità narrativa aperta e flessibile che abbraccia una molteplicità di sottonarrazioni che, a sua volta, consente (come il racconto che tutto raccoglie) interpretazioni divergenti e ricostruzioni future.

Per questa ragione, la vita dell’israeliano “ciclico” sembra essere un modo particolarmente valido per realizzare l’identità ebraica. Ma questo non implica che vi sia alcuna ingiunzione che gli ebrei mettano in pratica l’aliyah. La domanda “Come si riesce a realizzare la propria identità ebraica?” acquista la sua forza pratica dalla presupposizione che questo è qualcosa che si dovrebbe realizzare. Ma potremmo anche chiederci “Perché bisogna per forza darsi da fare per realizzare la propria identità ebraica?”. Non è facile rispondere a questa domanda.

Si potrebbe difficilmente sostenere che bisogna realizzare la propria identità ebraica per essere fedeli all’essenza del proprio sé, se non esistesse un’essenza dell’io a cui essere fedeli. Anche se ci fosse, perché l’ebraicità diventerebbe una parte necessaria di essa? E se il nascere ebrei è una mera contingenza, perché bisogna trasformarla nel progetto centrale della propria vita? Noi potremmo sentirci obbligati a vivere certe contingenze della nascita che sembrano particolarmente difficili da evitare o trasformare (diciamo, le contingenze di razza e di sesso). Ma anche se classificassimo l’ebraicità con queste rigide caratteristiche, resta la domanda “perché vivere da ebrei?”. Perché c’è un’enorme differenza tra vivere una contingenza e renderla un progetto di autorealizzazione.

Un argomento comune ma fuorviante per l’auto-realizzazione di sé come ebrei invoca quello che si potrebbe definire “il principio di Hitler”: sebbene la vostra ebraicità possa essere personalmente insignificante per voi, essa è essenziale per gli anti-semiti; e quindi dovreste vedere voi stessi e condurre la vostra vita secondo la loro visione oscurantista, dato che, nella possibilità (per quanto improbabile) che tornassero al potere di nuovo, questa potrebbe diventare la visione determinante. Ma sicuramente la propria scelta di vita dovrebbe essere guidata più dalle realtà, dalle probabilità e dalle speranze che da timori improbabili. Non si dovrebbe vivere pazzamente perché esiste la possibilità che un pazzo governi il mondo.

Un argomento ancora migliore per la realizzazione della propria ebraicità contingente emerge dall’affermazione postmoderna della contingenza e della plasticità narrativa. Se l’io è un prodotto contingente, non abbiamo altra scelta che costruire le nostre vite sulle contingenze, mentre riconosciamo che esistono vari gradi di contingenza, alcuni dei quali pongono dei limiti piuttosto fissi alla plasticità dell’auto-narrazione. Il segreto di una vita riuscita non sta nello sfuggire alle nostre contingenze, ma nel costruirle in una forma attraente, in una storia che possiamo abbracciare come la nostra.

Questo sentimento di trasformare la contingenza imposta in una creazione significativa costituisce la fonte della grande attrazione dell’aliyah per gli ebrei laici come me. La propria ebraicità, provata originariamente come un’imposizione senza senso di filiazione dovuta al fatto accidentale di avere genitori ebrei, tramite l’aliyah è trasfigurata in una scelta consapevole e significativa di affiliazione con un popolo sottoposto a lunghissime lotte e con un progetto nazionale continuo che ora si può dichiarare come proprio. La propria auto-narrazione e, dunque il proprio io, sono fortemente arricchiti quando vengono inseriti in questa storia più grande e di enorme rilievo storico. Tale ricchezza viene ulteriormente accresciuta dalla tradizione ebraica di affidarsi alla narrazione per sostenere e per ricreare la propria identità condivisa, come è evidente, per esempio, nella narrazione rituale della Pasqua.

Il potere di questo modello auto-creativo non implica ancora la necessità dell’aliyah. In primo luogo, l’ebraicità laica può essere resa significativa legandola ad altre ricche tradizioni ebraiche. Prendiamo, ad esempio, la celebrata tradizione dell’ebreo intellettuale internazionale, paradossalmente caratterizzato da Isaac Deutscher come “un ebreo non-ebreo”, che comprende personalità come Marx, Freud, Benjamin, Adorno e Hannah Arendt; questo modello dell’identità ebraica ha esercitato un’enorme fascino ugualmente sui gentili e sugli ebrei. Il suo fascino mi ha indotto a esplorare la sua pratica dapprima a Parigi e ora a Berlino – nelle loro vie, provando i diversi modi di vivere e frequentando le loro biblioteche.

In secondo luogo, gli ebrei laici hanno altre contingenze oltre a quelle connesse con l’ebraicità su cui costruire narrative di vita estetiche. La nascita ebraica può essere estromessa dal quadro da altri aspetti contingenti la cui maggiore importanza è essa stessa il prodotto di altre contingenze. Solo un’estrema “feticistica dell’unità” richiederebbe una narrazione di vita appropriata per contenere e integrare pienamente ogni aspetto contingente dell’io.

L’unità estetica, infatti, si ottiene più facilmente ignorando alcuni aspetti, sacrificando una ricchezza potenziale proprio per assicurare l’unità dalla minaccia di confusione attraverso l’insieme della contingenza. Tale è l’etica minimalista sostenuta da Epicuro e dagli Stoici come Epitteto. Questa offre un duro contrasto con l’ideale più familiare della modernità (faustiano-nietzscheano) di ricchezza massimale le cui complesse tensioni sono legate in un’unità molto più difficile, impegnativa e pericolosamente fragile. Troppo spesso trascuriamo i motivi estetici e i meriti della vita “semplice” e minimalista definendola ascetica. Ma ascetismo e estetismo non sono in contraddizione, come i Greci avevano individuato nella loro massima “la bellezza è difficile”.

Se non è necessario che l’auto-realizzazione abbracci tutte le contingenze dell’io, allora alcuni ebrei potrebbero decidere di non fare nulla della loro ebraicità senza violare la loro integrità negandola. Nascere ebreo può (sotto tali circostanze) rimanere un fatto non trasfigurato che non è né esplicitamente rifiutato né approvato, ma semplicemente non viene incorporato nel proprio progetto di vita. Questo è il fenomeno dell’assimilazione. Nonostante l’etnicità arricchisca, non vi è alcun imperativo estetico che obblighi chi è nato ebreo a fare di se stesso un’opera d’arte ebraica.

Infine, non esiste affatto alcun imperativo assoluto che diriga la nostra vita secondo imperativi estetici. L’auto-creazione estetica è un bel progetto, se si vuole perseguirla e ci si trova nella condizione privilegiata di avere i mezzi a disposizione per poterla realizzare. Non esiste, tuttavia, nessun obbligo assoluto a realizzarla. Qualunque siano gli imperativi estetici, la libertà di vivere come si vuole (anche se ciò significa vivere in modo “non artistico”) passa sopra a tutto. Si ha anche il diritto di essere infelici. La diatriba sulla felicità non è una necessità obbligatoria, ma la sua bellezza esperita. Forse anche questa è la ragione migliore e la migliore ricompensa per una vita filosofica.
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Richard Shusterman è un filosofo pragmatista americano, noto soprattutto per i suoi contributi all'estetica filosofica e al campo emergente della somestetica.





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(Traduzione dall’inglese di Sarah F. Maclaren, revisione di Anna Camaiti Hostert)