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Tuesday 8 November 2016

LIBERO EBRAISMO, LIBERALISMO

Bello e profondo questo articolo di Luciana Pepi, pubblicato nel 2013 su Mediaeval Sophia:


Fede e libertà nell’ebraismo
di Luciana Pepi

L’uomo nell’ebraismo, come nel cristianesimo e nell’islam, è concepito come creatura di Dio e non come essere autonomo e indipendente. È un “essere in relazione”.1

Anche la sua libertà è concepita all’interno della relazione con Dio ed in particolare con la “parola di Dio”, la Torah.2

L’ebraismo, in tutte le sue forme, dal pensiero rabbinico a quello qabbalistico, sostiene con fermezza il libero arbitrio.

La fede3 ebraica, come è noto, si manifesta soprattutto con le opere, le azioni, tanto da essere definita come “ortoprassi”. Il giudaismo, come si forma nei primi secoli dopo la distruzione del tempio, si presenta come una religione essenzialmente pratica, dedita non a definire un insieme di credenze teoretiche, quanto un insieme di atti (i precetti, in ebraico mitzwot)4 che l’ebreo deve compiere per vivere rettamente. L’osservanza delle mitzwot è elemento centrale della fede.

La riflessione rabbinica,5 come quella filosofica, evidenzia come senza libertà tale osservanza non avrebbe senso.

Il rapporto tra osservanza dei precetti e libertà è stato esplorato da diversi punti di vista, costituendo uno dei temi principali del pensiero ebraico di tutti i tempi.

L’ebreo vive “alla presenza i Dio” con la piena consapevolezza che questa “presenza” impone a lui determinati doveri, o meglio l’accettazione consapevole di una determinata disciplina. La locuzione ebraica qabbalat ‘ol mitzwot, l’accettazione del giogo dei precetti, riassume la volontarietà della scelta e l’accettazione di una disciplina che obbliga a comportamenti che il più delle volte non sono affatto dettati dai bisogni naturali dell’uomo, anzi, spesso li contrastano.

Inoltre, quei principi che potrebbero essere detti “etici”, come, ad esempio, l’amore per il prossimo, fanno parte di questa disciplina, perché non derivano da un kantiano imperativo categorico quanto dal fatto che solo così, secondo la consapevolezza ebraica, l’uomo si pone al cospetto di Dio.6

L’insieme delle mitzwot, che caratterizzano storicamente l’essere ebrei, sono dunque il modo ebraico di essere fedeli a Dio e di rendergli culto.

Spesso, nel corso della storia, la religione ebraica è stata accusata di essere un “vuoto formalismo” e la Legge (Torah), con i suoi 613 precetti, un “peso”, un “giogo”, da sopportare.7

Ma, nell’ottica ebraica, a fondamento della fede, dell’accettazione della Torah e dei suoi precetti vi è il libero arbitrio.

È una libera scelta dell’essere umano seguire la Legge e le sue norme.

Tale pensiero è espresso molto sinteticamente in una nota massima rabbinica che recita «Tutto è nelle mani di Dio tranne il timore di Dio».

Il termine “tutto” indica le azioni, le scelte, dell’individuo e l’insieme degli eventi dell’esistenza umana, mentre l’espressione “timore di Dio” allude alla fede stessa. Quindi il significato della massima è l’uomo è libero di credere in Dio (di avere “timore di Dio”).

Scrive Leibowitz commentando la massima rabbinica:
Per ‘tutto’ si intende la realtà oggettiva dell’uomo, cioè la professione che ha scelto di svolgere, la città in cui ha scelto di abitare [...] la scelta dell’uomo riguardo a questo ‘tutto’ è già stata stabilita a priori nella conoscenza del Signore.8 Il ‘tutto’ non comprende però la decisione dell’uomo di accettare o meno il giogo del Signore e di comportarsi di conseguenza, decisione che Dio ha lasciato nelle mani dell’uomo.9
Il rapporto tra Legge (Torah) e libertà è definito con precisione nel racconto della Bibbia, in particolare nel libro dell’Esodo. Il popolo ebraico viene “liberato” dalla schiavitù egiziana, e poi, dopo cinquanta giorni, assiste alla rivelazione divina con la promulgazione del Decalogo (simbolo per eccellenza della Legge) sul monte Sinai. Il modello dell’uscita dall’Egitto diventa fondamento dell’esperienza religiosa ebraica, base della Legge, criterio di riferimento per un sistema di diritto dove non c’è posto per l’ingiustizia e l’oppressione. La prima affermazione dei cosiddetti dieci comandamenti (letteralmente Dieci Parole) è quella in cui Dio si presenta come Colui «Che ti ha fatto uscire dall’Egitto, dalla terra della schiavitù» (Esodo 20, 2).10

La legge che regola la schiavitù si basa sul principio che «I figli d’Israele sono per me schiavi che ho fatto uscire dall’Egitto» (Levitico 25, 55). Come spiegano i Maestri, schiavi di Dio ma solo di Lui, e quindi di nessun altro.

La sottomissione a Dio e alla sua Legge è vista come libertà da qualsiasi altro assoggettamento.

In questa luce, l’educazione alla libertà, un’idea implicita alla creazione dell’uomo a immagine divina, è uno degli obiettivi fondamentali di tutti i precetti.11 L’ebreo, seguendo la via della Torah con i suoi precetti, trova la vera libertà.

La Legge non mette in forse la libertà, l’autonomia umana, anzi in qualche modo è garanzia di essa. La dipendenza da Dio non depaupera l’uomo della sua indipendenza ma gliela garantisce, rinnovandola nel suo senso originario e più pieno; su questa linea d’onda riecheggia un antico racconto che alla domanda sul perché Israele fosse paragonato a una colomba rispondeva:

Quando Dio creò la colomba, questa tornò dal suo creatore e si lamentò: ‘O Signore dell’universo, c’è un gatto che mi corre sempre dietro e vuole ammazzarmi, e io devo correre tutto il giorno con le mie zampe così corte’. Allora Dio ebbe pietà della povera colomba e le diede due ali. Ma poco dopo la colomba tornò un’altra volta e pianse: ‘O Signore dell’universo, il gatto continua a corrermi dietro e mi è così difficile correre con le ali addosso. Esse sono pesanti e non ce la faccio più con le mie zampe così piccole e deboli’. Ma Dio le sorrise dicendo: ‘Non ti ho dato le ali perché tu le portassi addosso, ma perché le ali portino te’.
E così è anche per Israele, continua il commentatore: quando si lamenta della Torah e dei comandamenti, Dio risponde loro: ‘Non vi ho dato la Torah perché sia per voi un peso e perché la portiate, ma perché la Torah porti voi’.12

Il tema della libertà si caratterizza quindi in un modo del tutto particolare, nel legame inscindibile con Dio e la sua volontà e il dovere che impone.

Mosè davanti al Faraone cita le parole divine: «Manda via il mio popolo, perché mi servano» (Esodo 7, 16; 26, 9; 1, 13; 8, 16) da una parte la libertà, dall’altra il servizio.

Nell’ebraismo, come è noto, il racconto biblico non rimane solo un documento del passato, ma è base dell’esperienza quotidiana, oggetto di studio e modello di pratica che viene sistematicamente rivisitato.13 Il ricordo dell’uscita dall’Egitto, che è in altri termini quello della libertà acquisita, è base di tutta la vita cerimoniale, dal Sabato alla Pasqua.14

Un famoso midrash15 gioca sull’espressione biblica con cui si descrive la scrittura delle tavole della Legge. Il testo biblico afferma: «Le tavole erano opera divina e la scrittura era scrittura di Dio incisa sulle tavole» (Esodo 32, 16). Il termine ebraico che indica “incisa” è “harut”; sostituendo una vocale – cosa possibile perchè il testo non è vocalizzato – si può leggere herut, che significa libertà.16

Leggiamo testualmente in Pirqe Avot: «Le tavole della Legge sono opera di Dio incisa sulle tavole (Esodo 32, 16). Non leggere harut (incisa-scolpita) ma herut (libertà), perché veramente libero non è se non colui che si occupa della Torah».

Quindi i Maestri suggerivano di leggere il versetto nel senso che «La scrittura di Dio è libertà nelle tavole».17

Il messaggio vuol essere: la libertà è nella Legge.

La libertà (herut) si collega all’obbedienza verso ciò che è inciso (harut) sulle tavole. Il rispetto di precise norme morali, nel comportamento dell’uomo nei confronti di Dio e dei suoi simili è ciò che concede a lui, e all’umanità intera, la libertà.

Afferma Abraham Yehoshua: «Questa concezione, che associa la nozione di libertà a ciò che è inciso nella pietra, ossia a richiami religiosi e morali fissati con ri- gore e chiarezza, è tipicamente ebraica».18

Per comprendere in senso della libertà occorre collegarsi a ciò che la esige e la fonda al tempo stesso: la Torah.

La frase: «La scrittura di Dio è libertà nelle tavole» ha un grande effetto di per sé, ma i rabbini continuarono a ragionarci sopra e ne diedero diverse interpretazioni. Alcune di queste le troviamo nella Mishnah, dove, ad esempio, si legge: «Non c’è uomo libero se non quello che si dedica allo studio della Torah» (Mishnah Avot, VI, 2). Ed ancora «Prendere su di sé il ‘giogo della Torah’» significa liberarsi dal “giogo del regno” ossia dalla sottomissione a un potere straniero. Rabbi Nehunyah ben Haqqanah disse: «Chi su di sé accoglie il giogo della Torah, sarà libero dal giogo dello stato e da quello delle sue occupazioni. Ma chiunque si sottrae al giogo della Torah, viene assoggettato al giogo dello stato e a quello del mondo» (Mishnah Avot, III, 5).19

Alcuni Maestri, come Rabbì Jehuda, intesero tale libertà come “libertà dai regni”, altri come “ libertà dagli esili”; rabbi Nehemia intese “libertà dall’angelo della morte”, altri Maestri interpretarono come “libertà dalle sofferenze”.

Le interpretazioni non sono univoche, la divergenza rabbinica rivela l’aspetto al tempo stesso debole e forte del principio. La mancanza di consenso rabbinico su un così importante pilastro del sistema, la divergenza sul senso della libertà, dimostra come vi sia nell’esegesi un ampio margine di libertà di pensiero e di dissenso. La prima interpretazione, quella che parla di libertà dai regni o dagli esili, è essenzialmente politica; si tratta di indipendenza nazionale e il messaggio è che per il popolo ebraico solo se c’è l’accettazione della Legge (Torah) c’è la garanzia di non dipendere o ed essere sottomessi ad altri.

Quello che sembra un semplice discorso politico probabilmente contiene un profondo messaggio religioso perché sostiene per gli ebrei l’unicità e l’esclusività della legge divina come garante di una libertà che altri popoli invece possono acquistare anche solo in termini meramente politici. Nelle altre due interpretazioni, di libertà dalle sofferenze o dall’angelo della morte, il significato non è più politico, ma è rivolto all’esperienza religiosa.20

Tali interpretazioni sono in parte ancora misteriose, e le proposte di lettura non potranno mai esaurirsi, anzi sono sottoposte ad altre e sempre nuove interpretazioni.

Le interpretazioni rabbiniche sopra citate vanno lette anche come un tentativo di sistematizzazione che ha sullo sfondo la nascita di una nuova religione, il cristianesimo, che critica all’ebraismo la sua rigida fedeltà alla Torah.

Afferma il rabbino Riccardo Di Segni:
Il paradosso è che il cristianesimo eredita dall’ebraismo il tema della libertà che si conquista solo nella strada di una disciplina spirituale, ma allo stesso tempo rifiuta il modello globale presentato dall’ebraismo, definendolo come ‘Legge’... Nei secoli successivi il distacco si farà ancora più profondo, accompagnato anche dal disprezzo e dall’accusa di freddo legalismo.21
La dicotomia tra secolarismo e religione sul tema della libertà, dopo essere stata una delle basi del conflitto degli ultimi due secoli tra progresso e reazione, torna alla tragica ribalta nella tormentata ricerca attuale di un equilibrio.

Osserva ancora Riccardo Di Segni:
L’uomo è sottoposto e minacciato da ogni tipo di schiavitù, da quella delle passioni personali a quella politica e ideologica della società che lo circonda. In opposizione a queste minacce il modello di vita proposto rappresenta una forma di riscatto e di liberazione totale dalle seduzioni passionali e culturali; e rispetto alle forme politiche di oppressione una linea di resistenza attiva e passiva, e un’espressione di speranza nella forza divina liberatrice.
Di libertà ce ne sono tante, come di schiavitù. Quando un essere umano serve più di un padrone sta facendo una qualche forma di idolatria. Il richiamo assoluto ebraico alla spiritualità non estranea l’uomo dalla società ma ve lo reimmerge decisamente con un progetto di rinnovamento e di correzione, indicando un modello di libertà molto più ampio e comprensivo di quelli di cui la società laica si accontenterebbe.22
La religione, in senso generale, dando norme di vita, principi etici da rispettare, sembra contenere e limitare la libertà umana. L’uomo di fede segue precise regole e crede in un ordine divino prestabilito.

Nell’ebraismo tutto ciò è ancora più esasperato. Infatti, l’ordine entro il quale l’ebreo deve muoversi, e al quale il suo comportamento è subordinato, è estremamente rigido e dettagliato. Come accennato sono 613 i precetti, mitzwot, che l’ebreo deve rispettare. Tali regole riguardano ogni aspetto della vita e sembra che pochi siano gli ambiti in cui l’ebreo possa esprimere la sua libertà personale.23 La vita
dell’ebreo osservante è scandita in ogni suo momento, in ogni suo gesto, da precise norme.

La halakah24 permea la vita dell’ebreo dall’istante in cui si sveglia a quello in cui si corica.

Come si può conciliare tutto ciò con la libertà?

Come si concilia la libertà dell’individuo con l’obbligo di rispettare le mitzwot? Molti pensatori, esegeti, filosofi ebrei di varie epoche hanno affermato che la libertà riguarda il pensiero, le opinioni, non le azioni. L’essere umano è libero nelle opinioni ma è obbligato nel comportamento.25

Abraham Yehoshua, con cui concordo pienamente, osserva che l’autonomia di interpretazione riservata al singolo gli restituisca, almeno in parte, la libertà.26

Come detto l’esegesi ebraica si caratterizza proprio per la possibilità della coesistenza di molteplici interpretazioni. Di un versetto biblico sono possibili infinite e sempre nuove interpretazioni.27

Le tavole della Legge, simbolo e metafora dei numerosi testi esegetici che ne seguirono – Torah, Mishnah,28 Talmud,29 – pur limitando la libertà dell’ebreo e subordinandola a esse, sono soggette all’autorità interpretativa del singolo. Tutti i testi tradizionali sono sottoposti all’interpretazione individuale ed inoltre la tradizione rabbinica sostiene che è come se ogni ebreo li avesse ricevuti personalmente.

Ad esempio, nell’Haggada di Pesah30 è scritto: «In ogni generazione ognuno deve considerare se stesso come se fosse uscito lui dall’Egitto e avesse ricevuto personalmente la Torah». Nessuna autorità umana può separare il singolo ebreo dagli scritti sacri, per quanto essi riducano la sua libertà.

Riassumendo, l’ebreo è subordinato alla parola divina e a tutto ciò che ne deriva. Essa limita la sua libertà, ma egli è solo di fronte a quella parola e ne è l’unico e legittimo esegeta. Non esiste una gerarchia religiosa che si interponga tra l’uomo e il suo Dio. Ogni ebreo è libero di considerare gli scritti religiosi secondo la propria comprensione. L’ebreo, inoltre, non deve essere necessariamente membro di una comunità per porsi in relazione con gli scritti sacri. Può scegliere l’isolamento, come Spinoza, ma continuare a commentare i testi a suo piacimento.

Tutto ciò è stato enfatizzato con la diaspora, ossia con la vita al di fuori di un contesto puramente ebraico. L’ebreo si è trovato libero dal controllo dei suoi correligionari e sempre in contatto con realtà altre, diverse.

Infine, per sottolineare ancora il valore della libertà, vorrei ricordare brevemente che secondo alcuni esegeti ebrei è proprio la libertà che fonda la somiglianza dell’essere umano a Dio. L’essere umano è l’unico ad essere creato ad “immagine e somiglianza” di Dio.

Nel noto versetto 26 di Genesi 1 leggiamo: «Dio disse facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza».

Da sempre gli esegeti si sono interrogati sul significato dei termini “immagine e somiglianza” (in ebraico zelem demut) ed hanno formulato diverse risposte.

Due le principali linee interpretative.

La prima: la somiglianza è la ratio, l’intelletto (intelletto che, a sua volta, viene inteso in diversi modi: come facoltà conoscitiva, facoltà di parola, facoltà di discernimento), tesi sostenuta da molti pensatori, tra cui Rashi e Jaqov Anatoli, solo per citarne alcuni.

La seconda: la somiglianza è la libertà, il libero arbitrio.

Come Dio è libero e per la sua libera volontà ha creato il mondo così l’uomo, tesi che troviamo soprattutto nella letteratura talmudica e midrashica.
Vi è un passo midrashico che afferma:
Né gli angeli né gli animali soddisfecero Dio, i primi non hanno alcuna inclinazione al male, i secondi non hanno alcuna inclinazione al bene. Il bene degli uni e il male degli altri non sono quindi frutto del loro libero arbitrio. Pertanto Dio creò l’uomo, che ha sia l’inclinazione al bene sia quella al male, se segue la seconda, diviene simile a un animale, se segue la prima è superiore a un angelo (Bereshit Rabba XIV, 3-4).31
In relazione al tema di questo convegno, il rapporto fede e libertà, mi piace concludere ricordando la concezione di Mosè Maimonide, il più grande filosofo ebreo del Medio Evo, secondo il quale il libero arbitrio non rientra tra i tredici principi di fede.32 Riguardo ad esso si può essere in disaccordo pur rimanendo all’interno della corretta fede.

Tra i principi troviamo il credere che Dio guida il creato nel suo insieme, che Dio conosce i pensieri dell’uomo e anche che Dio punisce e dà ricompense, ma non troviamo il libero arbitrio dell’uomo. La fede religiosa, quindi, attiene al modo in cui l’uomo comprende la sua posizione rispetto a Dio e i doveri impostigli alla luce di tale posizione, mentre le convinzioni dell’uomo su se stesso, sulle proprie capacità, sulla propria natura e sul proprio destino non appartengono alla sfera della fede. Si tratta di questioni di metafisica, a proposito delle quali è possibile trovarsi in disaccordo pur rimanendo all’interno della corretta fede religiosa.33

Il libero arbitrio dell’uomo è un dato certo, costitutivo dell’essenza dell’uomo, che è legato al termine di “immagine di Dio” che è nell’uomo; è un postulato di fede, da cui discende l’obbligo e la possibilità di praticare il culto del Signore.34
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NOTE
1 Egli è l’uomo conosciuto e riconosciuto da Dio. Come osserva Fohrer: «Non si dice né ‘Co- nosci te stesso’ nel senso della filosofia greca, né ‘Penso, dunque sono’ in senso cartesiano. Si dice piuttosto in senso biblico: Sono riconosciuto, i miei pensieri e le mie azioni sono conosciute dallo sguardo di Dio, ed è questo che costituisce la mia essenza’. Ciò non va visto in senso negativo, poiché accanto all’idea del controllo divino c’è quella del rapporto tra Dio e l’uomo, che fonda la comunione tra l’uno e l’altro, o – in altri termini – poiché l’uomo è visto in una situazione dialogica, come si esprime Martin Buber». G. FOHRER, Fede e vita nel giudaismo, Paideia, Brescia 1984, p. 215.
2 Il termine Torah, che letteralmente significa insegnamento, indica spesso l'intera Scrittura ebraica anche se propriamente designa il Pentateuco. Viene solitamente tradotto con Legge, ma occorre ricordare che deriva dal verbo yarah ( radice y r h) che significa insegnare, mostrare. La Torah è l’insegnamento per eccellenza. Essa, infatti, insegna a vivere in modo corretto. Quando si traduce Legge si deve tener presente che tale vocabolo non ha quella accezione giuridica che ha assunto nelle lingue occidentali. La Torah è Legge in quanto dà norme di vita, contiene tutti i comandamenti e i divieti divini. La Torah, rivelazione divina, è un dono che santifica la vita umana: Dio dando all’uomo  la sua “legge” gli insegna a vivere in modo santo (Levitico 19, 2: «Siate santi perché io sono  santo»).
«La Torah è l'insegnamento che Dio dà al suo popolo, è la via privilegiata che conduce a Lui. Essa insegna all’uomo come vivere rettamente. La Torah propone uno stile di vita, non la credenza in de- terminate dottrine. La Torah è anche la storia del popolo ebraico che incarna per tutta l’umanità il difficile cammino dell’uomo verso la Divinità e verso una vita più degna di essere vissuta». A. CAGIATI, Settanta domande sull’ebraismo, Edizioni Messaggero, Padova 1997, p. 17.
3 Il termine fede, in ebraico ‘Emuna, letteralmente significa credenza, ciò in cui si crede. Deriva dalla radice verbale ‘ m n che, nella forma base (qal) significa essere forte, essere stabile, nella forma passiva, (nifal), essere fermo, fedele, e nella forma causativa, (hifil), credere. Dalla stessa  radice, deriva l’avverbio ‘amen che significa: certamente, in verità, cosi sia. Il termine libertà, herut, deriva dalla radice verbale h r r , che nella forma semplice (qal) significa essere arido, secco, bruciare, mentre, nella forma intensiva (piel) liberare.
4 Il termine ebraico mitzwah ( plurale mitzwot) rende bene la relazione tra precetto, obbligo, comandamento. Il verbo da cui deriva, siwwah, significa, infatti: comandare, ordinare, stabilire, costi- tuire, dare disposizioni. Il comandamento è un obbligo divino, e in quanto tale, rende la vita quotidia- na, profana e mortale, permeata di senso divino ed immortale. Mettendo in atto le mitzwot l’ebreo rende piena la propria vita.
5 Il termine rabbino deriva dal termine rab (rav) che letteralmente significa grande, il rabbino è dunque colui che è grande nel sapere. Il rabbino è uno studioso, un maestro, un esperto di testi tradizionali della cultura ebraica, un esperto di Torah scritta e Torah orale.
6  Y. LEIBOWITZ, Lezioni sulle “Massime dei Padri” e su Maimonide, Giuntina, Firenze   1999, p. 14.
7  L’espressione ebraica per “il giogo della Torah” è ‘ol hatorah, oppure Malkut hashamaijmossia “sovranità del cielo”. Per giogo della Torah si intende l'adesione completa ed eterna ad essa in tutte le sue forme.
8 Questo aspetto è legato alla complessa questione della prescienza divina e di come quest’ultima possa conciliarsi con la libertà umana. Nell’ottica ebraica la conoscenza del mondo da parte di Dio, così come la provvidenza divina, non si contrappongono alla libertà dell’uomo.
9 Y. LEIBOWITZ, Lezioni sulle “Massime dei Padri” e su Maimonide, cit., p. 140.
10 M. A. OUAKIN, Le dieci parole. Il decalogo riletto e commentato dai maestri ebrei antichi e moderni, Paoline Edizioni, Milano 2001, p. 114.
11 Nel raggiungimento di questo obiettivo le tre feste di pellegrinaggio – pesah, shavuot, sukkot – rivestono una funzione importante. Tre sono i tipi di libertà che devono essere raggiunti: la libertà fisica, intesa come libertà da ogni forma di dittatura; la libertà spirituale, intesa come libertà di esprimersi nella propria cultura; la libertà economica, intesa come libertà dal bisogno. Cfr. C. E. KOPCIO- WSKI, Le pietre del tempo. Il popolo ebraico e le sue feste, Ancora, Milano 2001; J. J. PETUCHOWSKI, Le feste del Signore, Edizioni Dehoniane, Napoli 1987; L. SESTIERI, La spiritualità ebraica, Studium, Roma 1987.
                  12 M. CUNZ, Credibilità della chiesa come impegno di stile ecumenico, in C. DI SANTE, Responsabilità. L io-per- l’altro, Edizioni Lavoro-Esperienze, Roma 1996, p. 56. Cfr. F. Biagini, Torà e libertà. Studio sulle corrispondenze tra ebraismo ed anarchismo, Icaro, Lecce 2008.
13 Il racconto biblico va ricordato e rivissuto ed in tal modo assume valore di memoriale. Il memoriale, in senso biblico, è un gesto liturgico rituale con il quale si rendono presenti le meraviglie compiute da Dio. Cfr. E. BARTOLINI- G. CONORI-E. DANELLI, Narrare giocando, Effatà Editrice, Torino 2003, p. 89.
14 La celebrazione della pasqua ebraica (Pesah) ricorda l’evento storico della liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto, ma questo evento diventa simbolo eterno ed universale di ogni liberazione dalle diverse “schiavitù” da cui l’essere umano può essere dominato: schiavitù dal danaro, dalla droga, dall’alcool. Non basta ricordare l’evento dell’esodo, ma è necessario che ogni singolo individuo lo riviva personalmente. Cfr. Y. H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Pratiche Editrice, Parma 1983.
15 Il termine midrash, che deriva dalla radice verbale d r sh, vuol dire ricerca. Con tale termine si intende sia il metodo esegetico volto a dedurre dal testo biblico nuovi insegnamenti, sia la   raccolta di tali insegnamenti. Può essere di tipo halakico o haggadico, a seconda che venga applicato ai testi legislativi o a quelli narrativi della Torah. Si veda G. Laras in MOSÈ MAIMONIDE, Gli Otto Capitoli.  La dottrina etica, Giuntina, Firenze 2001; G. MOMIGLIANO, L’interpretazione omiletica: il Midrash-haggadah, in S. J. SIERRA, La lettura ebraica delle Scritture, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996, p. 138.
16 Vorrei ricordare che la lingua ebraica è consonantica e che il Testo Biblico è originariamente non vocalizzato, i segni vocalici vengono inseriti solo intorno al sesto secolo d. c.
17 Cfr. P. ABOT, Morale di Maestri ebrei, Carocci, Roma 1985, p. 65.
18  A. YEHOSHUA, Libertà vò smarrendo, intervista pubblicata in «La Stampa», 29.11.2001, p.27.
19 Per la traduzione italiana Cfr. P. ABOT, Morale di Maestri ebrei, cit., p. 26. 
20 Per una dettagliata analisi delle diverse interpretazioni si veda Y. LEIBOWITZ, Lezioni sulle “Massime dei Padri” e su Maimonide, cit., pp. 45-51.
22 Ibid.
23 Le mitzwot non comprendono solo azioni pratiche ma anche teoretiche. È interessante ricor- dare che tra i comandamenti è compreso anche lo studio della Torah (Talmud Torah). O forse è meglio dire che tale studio costituisce l’essenza della vita dell'ebreo che intende praticare il culto di Dio. Lo studio della Torah non è considerato un mezzo per l’acquisizione di nozioni, ma costituisce esso stesso il contenuto della vita spirituale dell'uomo. Scrive Yehoshua Leibowitz: «Per ‘studiare la Torah’ non si intende solo apprendere quanto è scritto nella Torah, ma pensare ad essa, riflettere su di essa,  interpretarla  e  trarne  delle  conclusioni».  Y.  LEIBOWITZLezioni  sulle  “Massime   dei Padri” e su Maimonide, cit., p. 143.
24 L’halakah è l’insieme di norme religiose che sono contenute nella Torah scritta e in quella orale e che si riferiscono sia ai rapporti col prossimo che a quelli con Dio. Letteralmente halakah significa via, norma o regola (dalla radice h l k che vuol dire camminare, andare), essa, infatti, indica la via che il popolo ebraico deve seguire. Si tratta dunque della raccolta delle disposizioni, in senso giuridico, che determinano una condotta di vita ispirata alla Torah e alle sue applicazioni, così come esse vengono stabilite dalla tradizione. Cfr. G. SCHOLEM, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986, pp. 83-84.
25 Y. LEIBOWITZ, Lezioni sulle “Massime dei Padri” e su Maimonide, cit., pp. 17-18.
26 A. YEHOSHUA, Libertà vò smarrendo, cit.
27 Non si può comprendere a pieno il pensiero ebraico – in ogni sua forma – se non si comprende il costante riferimento dei pensatori ebrei, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, alla Torah. La  Torah ha bisogno del continuo studio, dell’incessante commento, di essa si avranno sempre diverse e nuove interpretazioni. La Torah per rimanere viva e per essere adattata alle sempre nuove esigenze di chi la legge, ha bisogno di nuove e diverse esegesi. La tradizione ha il compito di tenere insieme tutte le diverse esegesi, interpretazioni. Non c’è un’interpretazione che superi un’altra, tutte sono valide. Così afferma una massima rabbinica «la Torah ha settanta volti». Osserva acutamente Sholem: «La Bibbia non è un blocco monolitico, con il passare del tempo all’uomo si pongono sempre nuovi problemi ed è necessario trovare nello stesso testo rivelato le risposte a questioni nuove. In ogni generazione la Torah viene interpretata secondo i bisogni di questa generazione. La Torah è da un lato verità eterna, criterio di ogni verità, dall’altro non è compiuta se non in tale continuo studio, ripensamento,di ogni generazione [...] Fino a che i saggi non si rivolgono ad essa con le loro ricerche la Torah resta incompiuta [...] ma per le loro ricerche essa diventa un libro compiuto». Cfr. G. SCHOLEM, Concetti fondamentali dell’ebraismo, cit., pp. 83-84.
28 Il termine Mishnah (dalla radice s n h ripetere) letteralmente significa ripetizione. Indica la raccolta normativa, frutto della tradizione giudaica postbiblica, tramandata dapprima oralmente, poi messa per iscritto tra il I e il III sec. d.C. Essa è codificazione di leggi, tradizioni, esegesi del testo biblico. La Mishnah fu oggetto di ulteriore studio, di commento, il risultato di tali studi fu la ghemarà (letteralmente completamento). L’insieme di Mishnah e Ghemarà formano il Talmud.
29 Il termine talmud deriva dal verbo lamad studiare (radice l m d ) e letteralmente significa studio. Esistono due redazioni del Talmud: quello di Gerusalemme (o palestinese) terminato sul finire del IV sec. d.C. e quello di Babilonia (scuola di Sura), più ampio ed articolato, terminato nel VI sec. d.C. Il Talmud, testo molto vario e complesso, contiene: riflessioni morali, filosofiche, racconti, leggende, osservazioni scientifiche, discussioni giuridiche, temi religiosi (dal culto quotidiano ai rapporti umani), esegesi della Scrittura. Per quanto riguarda la struttura è importante notare che tutte le esegesi, come pure tutte le leggi, vengono esposte non in maniera definitiva ma in modo da conservare la loro vitalità, spesso le tematiche vengono esposte sottofornma di discussioni. Osserva Dante Lattes:
«Il Talmud ci presenta non solo le leggi ma tutte le modificazioni che le leggi hanno subito nei vari secoli e tutte le differenti opinioni degli antichi dottori su di esse». Cfr. D. LATTES, Aspetti e problemi dell’ebraismo, Carucci, Roma 1986, p. 294.
30 Il termine haggada letteralmente racconto, che deriva dalla radice n g d raccontare, narrare, ben esprime il carattere di questa festa. Il racconto, la narrazione del racconto biblico dell’uscita dall’Egitto, accompagnato dai commenti dei vari maestri della tradizione, durante il rito viene proclamato e rinarrato per “far memoria” di quell’evento. Cfr. E. BARTOLINI, G. CONORI, E. DANELLI, Narrare giocando, cit., pp. 86 e 98. Cfr. Haggadah di Pasqua, testo ebraico con traduzione italiana a cura di A. S. Toaff, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma 1985. Sulla genesi dell’Haggada  cfr. M. PESCE, Dio senza mediatori. Una tradizione teologica dal giudaismo al cristianesimo, Paideia, Brescia 1979.
31 L. GINZBERG, Le leggende degli ebrei, Adelphi, Milano 1995, p. 243.
32 Maimonide, nel suo Commentario alla Mishnah (Sanhedrin, cap. 10), esamina questi Shlo-shah-Asar Ikkarim o tredici principi della fede come “Le verità costituenti la nostra religione nonché  le sue stesse fondamenta”.
33 Y. LEIBOWITZ, Lezioni sulle “Massime dei Padri” e su Maimonide, cit., pp. 134-135.
                  34  Ivi, p. 154.