AN ANTHOLOGY OF THOUGHT & EMOTION... Un'antologia di pensieri & emozioni
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KABBALAH E SCIENZA

L'EBRAISMO E IL PENSIERO SCIENTIFICO: IL CASO DELLA KABBALAH

di Giorgio Israel


Il tema dei rapporti fra il pensiero ebraico e il pensiero scientifico ha ricevuto fino ad oggi una ben scarsa attenzione. Un solo esempio può servire ad illustrare questa situazione: nei volumi bibliografici che raccolgono la lista delle pubblicazioni nel campo della storia della scienza, editi annualmente dalla rivista Isis,1 i rari contributi dedicati a questo tema2 sono riportati sotto la voce "Islamic and related cultures". Le ragioni di questa marginalità sono molteplici ed una fra esse è certamente legata al fatto che buona parte dei manoscritti necessari ad approndire l'argomento sono non pubblicati e comunque di difficile accesso.3 Ma la ragione più importante e profonda è certamente un'altra: la storia dello sviluppo del pensiero scientifico si caratterizza, almeno fino agli inizi del nostro secolo, per l'esistenza di tradizioni nazionali ben definite (al punto di poter parlare di vere e proprie "scuole" nazionali), mentre per circa due millenni non si può parlare di una identità nazionale ebraica. Questo spiega le ambiguità del tema dei rapporti fra pensiero ebraico e pensiero scientifico e la vera e propria difficoltà di definirne i termini. Esso si confonde spesso con quello molto più sfuggente ed equivoco del "contributo" degli "ebrei" alla scienza, che in tempi a noi vicini è diventato persino un tema della propaganda razziale, tesa a dimostrare l'esistenza di un'invasione della scienza da parte degli ebrei al fine precipuo di distruggerne i connotati nazionali e di affermare una visione cosmopolita, anti-nazionale e anti-occidentale della ricerca scientifica.4 Se lasciamo da parte questo terreno scivoloso che conduce verso problematiche assai diverse, il tema che appare più chiaramente definibile è quello dei rapporti fra il pensiero scientifico e il nucleo più caratteristico del pensiero ebraico, ovvero il pensiero religioso e, al suo interno, la visione teologica e filosofica del cosmo e delle forme attraverso cui l'uomo può tentare di conoscerlo e comprenderlo. La maggiore facilità di definire questa visione è certamente legata al fatto che essa affonda le sue radici più lontane in un contesto in cui il pensiero ebraico aveva maggiori caratteristiche di unità o almeno di prossimità con una fase di unità nazionale e culturale. 

Sotto questo profilo, è corretto affermare (pur con tutte le inevitabili semplificazioni) che il pensiero ebraico si muove entro una prospettiva alquanto diversa da quella rappresentata dalla tradizione filosofica e scientifica del pensiero greco e contribuisce con tale prospettiva alla formazione di una delle due tendenze fondamentali che, pur intrecciandosi e influenzandosi vicendevolmente, rappresentano gli elementi costitutivi del pensiero occidentale moderno. 

Questa duplice tendenza è stata illustrata in modo semplice ma efficace da uno scienziato contemporaneo con l'osservazione che “i Greci erano molto forti sulla conoscenza, ma deboli sul significato; mentre gli Ebrei avevano poco tempo per l'epistemologia, ma riempivano il mondo di una tale visione e di un tale senso del significato che è soltanto oggi che se ne sente un indebolimento.”5 E' una osservazione che illustra bene il dualismo dei due grandi ceppi della cultura europea e che è approfondita in modo preciso dal brano seguente:
« Per l'Ebreo del Vecchio Testamento la realtà si identifica con la Creazione […] Esso è molto lontano dallo spirito greco che indaga obiettivamente tutto quello che si presenta ai sensi ed alla mente, utilizzando la ragione considerata come funzione caratteristica e specifica dell'intelletto. Per il Greco, tutto è oggetto di indagine e di discussione, perfino l'atto del pensare. Invece l'interesse dell'Ebreo si concentra quasi esclusivamente sugli stati d'animo. Sarebbe assurdo affermare che l'Ebreo non si affidi alla ragione; tuttavia per lui i fenomeni tendono ad interiorizzarsi, a presentarsi come concatenazioni di reazioni psichiche più che come fatti collocati in un mondo dove non circola la coscienza. La causa dinamica dei fenomeni egli non sa ritrovarla altro che in una volontà. La logica che egli riesce a scoprire nella organizzazione della Natura, viene da lui considerata come manifestazione di una volontà suprema che ha sistemato ogni cosa entro un ordinamento davanti al quale l'uomo non può far altro che ammirare e tacere, impressionato dalla rivelazione di una sapienza che lo supera infinitamente e che contiene la sua. 
Quello che l'Ebreo cerca di conoscere nella Natura non è il meccanismo nascosto che pone tutto in un movimento armonico; ma l'intenzione misteriosa che vuole le cose così come gli appaiono.
Il Greco vede il mondo muoversi e svolgersi in una successione infinita di situazioni e di fatti strettamente condizionati l'uno dall'altro e che si determinano reciprocamente. L'Ebreo vede il mondo muoversi ed agitarsi per l'intervento di una volontà unica e suprema che lo condiziona secondo uno scopo che egli non osa nemmeno indagare. Sente che la ragione lo pone di poco al di sotto della divinità, ma è convinto anche che questa stessa ragione è condizionata e donata da Dio. Nel Greco la ragione è lo strumento essenziale di tutto quello che può essere conosciuto; mentre nell'Ebreo la conoscenza ha la sua sorgente fuori di lui; essa gli viene donata insieme alla ragione. Pertanto egli aspetta che tutto gli venga rivelato, perfino il segreto delle proprie capacità intellettive. Per l'Ebreo biblico l'osservazione della natura si risolve regolarmente in contemplazione passiva.6 
Nella natura l'Ebreo si limita ad ammirare la grandezza di un'opera già realizzata prima che egli la potesse contemplare. Sul suo capo si estende il Cielo con le sue schiere innumerevoli di astri, opera di una mano che non è la sua, animati da una voce che non giunge fino a lui. Invece nell'intimo della propria coscienza si apre un mondo altrettanto sconfinato nel quale egli si sente non soltanto esistere realmente, ma si sente molto vicino a Dio; è qui che sa di essere di poco inferiore alla divinità. Anche quando tutto tace egli sente muoversi in se stesso un altro universo di cui riesce ad intuire l'incommensurabilità e le vie più nascoste. E' l'Universo etico, il suo universo, quello che percorre insieme agli altri uomini e nel quale Dio non appare come una forma oscura che si limita a muovere le cose; ma soprattutto ed esclusivamente come intelligenza che regola l'armonia suprema nella convivenza degli uomini e che realizza la libertà e la perfetta uguaglianza delle coscienze.»7 
La contrapposizione (o quantomeno la distinzione) che viene qui fatta fra la speculazione ebraica che affonda le sue radici nel pensiero biblico e il pensiero filosofico-scientifico greco può essere specificata in cinque aspetti. Essi definiscono altrettanti motivi per i quali il pensiero ebraico si differenzia dalle tendenze fondamentali del pensiero scientifico moderno il quale, almeno per questi aspetti, si ricollega alla tradizione greca. 

Il primo aspetto è la contrapposizione tra una visione che ha come centro il problema della conoscenza ed una visione che attribuisce invece un'importanza primaria al problema del significato. Si tratta, in definitiva, della contrapposizione fra approccio epistemologico e approccio ermeneutico che è sottolineata nel passaggio di Goodwin sopracitato. 

La seconda divergenza concerne la visione del mondo che, nel caso ebraico è soggettivistica, mentre nel caso greco è sopratutto oggettivistica

A questa divergenza se ne collega un'altra: mentre la visione oggettivistica della conoscenza della realtà conduce a una divisione del mondo in due (da un lato la sfera dei fenomeni naturali, dall'altro la sfera dei fenomeni psichici), nel pensiero ebraico è presente una forte spinta verso una visione unitaria del mondo. Ne discende (ed è questo il quarto aspetto) una diversa attenzione per i problemi della psicologia dell'uomo: questa attenzione è molto maggiore nel pensiero ebraico. 

Infine, mentre l'approccio oggettivistico ai fenomeni naturali conduce alla progressiva affermazione di una visione deterministica (che diventerà nell'epoca moderna il nucleo dell'ontologia e dell'epistemologia scientifica), il pensiero ebraico è più attento al ruolo dell'"intenzione", della scelta soggettiva, della finalità. Questo tema rimarrà tuttavia presente anche nella speculazione scientifica moderna, ma in una posizione subordinata e costantemente combattuta dalle tendenze oggettivistiche egemoni. 

Se la situazione è in questi termini, si potrebbe concludere che alcune delle tendenze fondamentali della speculazione ebraica manifestano una tale diversità rispetto alle caratteristiche del pensiero scientifico moderno, da suscitare seri dubbi circa l'esistenza di un rapporto e di un contributo della prima sul secondo. E, in certo senso, che siano esistiti profondi elementi di divergenza è confermato dalla descrizione che Gershom Scholem fece dell'influsso che ebbe l'emancipazione degli ebrei avvenuta alla fine del Settecento — come conseguenza della diffusione del pensiero illuministico e della Rivoluzione Francese — sulla tradizione culturale ebraica. Una delle principali conseguenze di tale processo di emancipazione fu, secondo Scholem, proprio l'assimilazione da parte degli ebrei del pensiero occidentale, e in particolare del pensiero scientifico: l'entusiasmo con cui gli ebrei parteciparono alle correnti principali della cultura europea ebbe come conseguenza l'abbandono di alcuni tradizioni speculative fra cui sopratutto quella mistica rappresentata dalla Kabbalah.
« Quando — verso la fine del secolo XVIII — gli ebrei dell'Europa occidentale imboccarono con tanta decisione la via della cultura europea, la Kabbalah fu una delle prime e più importanti vittime cadute su questa strada. Il mondo del misticismo ebraico, col suo simbolismo intricato e interamente introverso, era ora sentito come estraneo e perturbatore e veniva rapidamente dimenticato. I cabbalisti avevano cercato di sondare o di descrivere il mistero del mondo nel senso di un rispecchiamento dei misteri della stessa vita divina […] Per secoli questo mondo aveva avuto un valore vitale per la concezione che gli ebrei avevano di se stessi. Ora scompariva, travolto in certo modo nel vortice dell'età moderna, e in maniera così completa che per intere generazioni si sottraeva quasi del tutto a una conoscenza oggettiva e razionale. Ciò che restava aveva l'aspetto di un campo di macerie, impervio e ricoperto di sterpaglie, in cui solo qua e là apparivano immagini del sacro bizzarre, che offendevano il pensiero razionale e destavano la meraviglia e il rifiuto di qualche dotto viaggiatore.»8
La partecipazione piena degli ebrei all'impresa della scienza moderna si manifestò dunque per lo più nella forma di un'adesione alla visione "greca", razionalista e oggettivista del mondo e di un abbandono di alcuni degli elementi che costituivano l'identità più profonda e radicata della cultura ebraica.9 Un'analisi attenta delle caratteristiche del contributo ebraico alla scienza moderna — almeno in quei casi in cui l'adesione alla visione oggettivista non si manifesta in forme del tutto incondizionate — mostrerebbe la persistenza di elementi caratteristici della visione ermeneutica, soggettivistica e unitaria di cui si diceva sopra.10 E anche in quegli ambiti in cui la tradizione ebraica ha dato i contributi più netti e evidenti alla scienza — come la medicina — è difficile non scorgere la presenza di quella visione.11 

Se quindi il proposito è quello di stabilire dei rapporti e studiare i collegamenti fra il pensiero ebraico e il pensiero scientifico moderno, queste osservazioni che mettono in luce gli elementi di divergenza con l'oggettivismo e il dualismo caratteristici del secondo, sembrerebbero dover troncare il nostro discorso prima che inizi. E ciò sembrerebbe particolarmente vero, se ci riferiamo alle correnti mistiche del pensiero religioso ebraico, e in particolare alla Kabbalah. Vedremo che un discorso del genere è in parte fondato e riveste un interesse a condizione che esso sia sviluppato al di fuori degli stereotipi di consueti e banali anatemi. E sopratutto a condizione di pervenirvi non in modo diretto e schematico ma attraverso un percorso articolato e anche tortuoso: la realtà storica è sempre assai più complessa di quanto possa apparire al primo esame. L'analisi storica ci permetterà di cogliere in modo più preciso alcuni legami importanti fra alcuni temi del pensiero kabbalistico e il pensiero scientifico moderno alle sue origini: e proprio nel modo in cui quei temi furono recepiti e trasformati, se non addirittura interpretati in modo radicalmente nuovo, coglieremo le ragioni delle divergenze di cui si è accennato sopra e alcune importanti caratteristiche dei rapporti fra pensiero religioso ebraico e pensiero scientifico. 

Inizieremo con un rapido tentativo di caratterizzare alcuni dei temi fondamentali del pensiero kabbalistico, nel contesto più generale del pensiero religioso e filosofico ebraico. 

Il ruolo dell'Ebraismo nella storia delle religioni è di solito correttamente identificato nello sforzo di affermare in modo intransigente il monoteismo contro ogni sorta di panteismo o di identità panteistica di Dio con il cosmo e l'uomo. L'ebraismo ha scavato fra un abisso fra queste tre sfere e sopratutto un abisso invalicabile tra uomo e Dio, e ha in tal modo identificato il suo ruolo nel contesto più generale del pensiero religioso come quello di una lotta senza quartiere contro il mito. Gran parte del pensiero rabbinico medievale si ispira a questo intento di distruzione del mito: questa corrente raggiunge il suo culmine e ha la sua espressione più radicale nell'opera di Mosé Maimonide il quale, con l'adesione all'aristotelismo e l'opposizione a ogni forma di neoplatonismo, tenta di liquidare le ultime radici mitologiche dal pensiero ebraico. Si tratta tuttavia di un tentativo che non riuscirà mai completamente e troverà anzi nell'emergere del pensiero kabbalistico una reazione energica e audace che affonda le sue radici nella spiritualità religiosa popolare. Difatti, la tendenza a proteggere il monoteismo da ogni contaminazione mitica portava a uno svuotamento totale del concetto di Dio che lo rendeva inaccessibile sopratutto alla religiosità delle masse. La difficoltà era legata all'immagine di un Dio di cui si poteva dire sempre di meno, e anzi proprio nulla e che, guadagnando in purezza, perdeva ogni vitalità: questa perdita era in definitiva inaccettabile per lo stesso pensiero religioso monoteistico. In effetti, non si può dire che l'emergere di questa tensione si identifichi storicamente con la nascita del pensiero kabbalistico alla fine del XII secolo. Questa nascita segna soltanto l'esplosione di quella che è la più grande e drammatica tensione in due millenni di storia del pensiero ebraico e che potremmo definire come la tensione "essenziale"12 del pensiero ebraico. Essa si identifica nella contrapposizione (risalente alle origini dell'ebraismo rabbinico) fra la tendenza che aveva assunto come riferimento fondamentale il mistero dell'apparizione del Carro Divino descritto da Ezechiele e quella che ricavava dal mistero della Creazione i temi della sua speculazione: è la tensione fra la speculazione attorno al Ma'aseh Merkabà ("Fatti del Carro"), tendente a scoprire il senso della vita divina attraverso la comprensione mistica del senso dei simboli con cui essa si presenta nelle Sacre Scritture e quella attorno al Ma'aseh Bereshit ("Fatti dell'Inizio") che, accentrando invece l'attenzione sulla Creazione, intesa come manifestazione storica dell'esistenza di Dio, da esso separata, respingeva l'esigenza di una rappresentazione materiale di Dio, caratteristica del Ma'aseh Merkabà.13 

Nel corso dei secoli l'ebraismo rabbinico fece ogni sforzo per combattere e annientare le speculazioni mistiche derivanti dalla tradizione del Ma'aseh Merkabà, senza riuscirvi mai in modo definitivo. Pertanto, quando, alla fine del XII secolo, si manifestò prima in Provenza e poi in Spagna l'improvvisa esplosione della speculazione e della letteratura kabbalistica,14 si trattò di una rivincita della corrente latente della Merkabà contro la tradizione apparentemente consolidata dell'ebraismo rabbinico (Halakhah). Vennero così a confronto, in modo esplicito e radicale, due concezioni assai diverse. La prima tendeva ad affermare una visione statica dell'unità di Dio che si esprimeva in una serie di principi fondamentali: dell'unità di Dio possono essere enunciati soltanto gli "attributi"; la legge deve essere separata in modo totale da ogni manifestazione cosmica; l'Ebraismo deve essere considerato entro una prospettiva puramente storica. Si trattava di una concezione ispirata da un atteggiamento estremamente razionale che distaccava la legge dalle sue radici emotive — caratteristiche queste che, come ha osservato Scholem, formano la grandezza ma anche una certa sterilità dell'Halakhah

La seconda concezione propugnava invece una visione viva e dinamica dell'unità di Dio, in cui l'attenzione non era rivolta agli attributi di Dio quanto alle sua attività concrete, o "potenze"; una visione ispirata a una concezione organicistica e unitaria della triade Dio-cosmo-uomo che descriveva la vita divina come un organismo articolato in una sorta di flusso dinamico (nell'albero delle dieci Sefiròth). In tal modo, pur muovendo dall'interno della tradizione dell'Halakhah, si faceva di quest'ultima il veicolo di una visione mitica che trasformava la Torah da legge razionale a corpo mistico. Osserviamo, di passaggio, che proprio questa ripresa del mito e di una visione concreta e materiale del processo della vita divina nei suoi rapporti con il mondo e con l'uomo — che è la radice, per dirla con Scholem, del volto al tempo stesso affascinante e repellente del pensiero kabbalistico — conduce alla formazione di una visione unitaria cosmologica e cosmogonica: con riferimento a tale visione è possibile sviluppare una riflessione sui rapporti fra Kabbalah e scienza, sia sul piano storico che su quello filosofico. 

L'esistenza di questa "tensione essenziale" in tutta storia dell'Ebraismo, ha condotto Scholem a confutare la tesi di Graetz,15 secondo cui la Kabbalah sarebbe nata soltanto come reazione al razionalismo di Maimonide, sul terreno puramente speculativo.16 Questo approccio tutto filosofico alla mistica ebraica conduceva Graetz a valutare la Kabbalah soltanto su questo piano e a darne così un giudizio estremamente duro, fino a presentarne la più famosa espressione scritta in ambiente spagnolo, il libro Zohar ("Splendore"), come un prodotto di pura e semplice ciarlataneria e truffa. Scholem ha avuto il merito indiscusso di mostrare come la Kabbalah nasca sul piano della vita spirituale e religiosa e manifesti il riemergere di tendenze gnostiche presenti in tutta la storia dell'Ebraismo (e di cui la mistica della Merkabà è la più evidente manifestazione) e che sarebbero anche state stimolate dai rapporti con ambienti cristiani eretici della Provenza nonché dall'ambiente religioso (o, per meglio dire, interreligioso) della "Spagna delle tre religioni". Il che non toglie nulla al fatto che la Kabbalah — e sopratutto il suo testo più famoso, lo Zohar — si manifesti storicamente come un'enunciazione di tesi contrapposte quasi punto per punto a quelle di Maimonide.17 La parziale rivalutazione delle tesi di Graetz da parte del massimo studioso vivente della Kabbalah, Moshe Idel,18 e la sua riscoperta di sottili legami fra alcuni aspetti del pensiero di Maimonide e del pensiero kabbalistico, rintracciabili sopratutto nell'opera del kabbalista spagnolo Abraham Abulafià,19 costituiscono una correzione e un perfezionamento delle tesi di Scholem che non ne alterano tuttavia il nucleo essenziale. 

Vogliamo sottolineare di sfuggita un aspetto paradossale. La Kabbalah non si contrappone formalmente alla Halakhah, anzi essa può ben essere definita come un tentativo di interpretazione mistica dell'ebraismo talmudico e dell'ebraismo della legge, che procede con il tradizionale metodo dell'esegesi biblica. E, di fatto, Kabbalah vuol dire "tradizione". Ma questo paradosso è solo un riflesso dell'atteggiamento del mistico nell'ambito dell'attività religiosa, che si caratterizza per un duplice volto conservatore e rivoluzionario nei confronti dell'autorità. E' questo un atteggiamento caratteristico, come osserva Scholem, di ogni pensatore mistico, pur nella grande varietà di posizioni, da Paolo di Tarso ai kabbalisti, da Ignazio di Loyola ai mistici arabi.20 Pur assumendo in pieno la difesa della tradizione e dei testi sacri che la esprimono, il mistico penetra in essi con un atteggiamento eterodosso e talora violentemente eversivo. La sua attività speculativa — in particolare nell'esegesi dei testi — si esprime nello sforzo di dissolvere tutte le strutture empiriche e concrete a favore di strutture e costruzioni mistiche: al posto dei significati testuali egli introduce intuizioni di immagini, forme, luci e suoni che dissolvono progressivamente le strutture concrete del testo in qualcosa di amorfo e illimitatamente plastico; e un analogo atteggiamento egli assume nei confronti delle pratiche concrete dell'attività religiosa.21 Questo approccio dissolutivo porta spesso il mistico (e nella fattispecie il kabbalista) a una vera e propria sovversione della tradizione di cui pure egli dichiara di voler essere un intransigente difensore. Quanto ciò sia dovuto alla volontà cosciente di introdurre attraverso le pieghe di un'interpretazione dissolvente un'ortodossia alternativa o si tratti piuttosto di una conseguenza involontaria del metodo adottato, va esaminato caso per caso ed è in definitiva secondario ai fini del risultato. Quel che conta è che l'atteggiamento del kabbalista conduce alla distruzione dell'univocità del significato il quale si moltiplica così in un'infinità di strati. 

Racconta Origene che un membro dell'accademia rabbinica di Cesarea gli aveva spiegato che le Sacre Scritture sono come una grande casa con moltissime stanze, tutte dotate di una chiave che non è però quella giusta: le chiavi sono state scambiate e mescolate ed è compito dell'esegesi ritrovare il giusto ordinamento e la corrispondenza esatta fra chiavi e stanze. Questa metafora illustra l'importanza dell'ermeneutica mistica, della ricerca del significato, del "senso nascosto", ma non contiene ancora l'idea della molteplicità del significato. Se facciamo un salto di quasi quindici secoli alla Kabbalah sviluppatasi a Safed in Palestina (e, in particolare, a quella di Isaac Luria), la metafora di tinte kafkiane attribuita da Origene alla tradizione talmudica, si trasforma in un'altra metafora molto più radicale che tocca direttamente il problema dell'univocità della verità: ogni parola della Torah ha seicentomila facce, tante quanti erano i figli del popolo d'Israele che stavano ai piedi del monte Sinai per ricevere la legge. La verità è come un poliedro a seicentomila facce: ogni uomo osserva attraverso una di esse, e segue così la sua via personale di accesso alla rivelazione che è legittima al pari di tutte le altre. 

Tutti i testi della mistica kabbalistica sono intessuti di esempi di esegesi sconcertanti come quella che precede, che scardinano il significato letterale del testo per ricercarne uno più profondo e nascosto. «Vattene (Lekh lekha) — dice Dio a Abramo nella Genesi (12.1) — dalla tua terra, dai tuoi figli, dalla casa di tuo padre verso la terra che ti farò vedere e farò di te una grande nazione.» Ma, per il kabbalista dello Zohar, Lekh lekha non vuol dire soltanto "vattene" bensì anche "va a te", ritorna a te stesso, ritrova ciò che davvero sei. Così come la discesa di Salomone nel frutteto di noci di cui si parla nel Cantico dei Cantici diviene nello Zohar il simbolo della discesa nella profondità dei diversi strati di significato della parola: difatti, i gusci concentrici della noce sono proprio il simbolo di questa stratificazione del significato, che procede dal livello più evidente (e "testuale") a quello più nascosto e profondo.22 

Torneremo sul tema fondamentale della molteplicità del significato, ma soffermiamoci ancora sul tema di partenza. Possiamo dire, in estrema sintesi, che la tradizione kabbalistica propone un ribaltamento della concezione che divide con un abisso Dio, il cosmo e l'uomo, ricercando una descrizione sia del mistero del mondo che delle vicende storiche del popolo ebraico, nei termini di un rispecchiamento dei misteri della vita divina. In termini più precisi, la legge espressa nella Torah è nient'altro che il simbolo delle legge cosmica; così come la storia del popolo ebraico, che in essa è raccontata, è nientemeno che il simbolo del processo cosmico. Di qui la stretta interconnessione fra Dio, cosmo e uomo che si manifesta proprio attraverso la "parola", la Torah, che non è soltanto mero mezzo di comunicazione ma dispiegamento della luce, dell'energia e del linguaggio divino. L'esegesi mistica del testo diventa quindi analisi mistica del cosmo: tutta la "scienza" (ovvero, la conoscenza del cosmo e della storia umana) è riassorbita in questa esegesi la quale ha anche un fortissimo lato razionale, perché, sebbene piegata alle esigenze dell'intuizione mistica, si sviluppa con una precisione e un rigore analitico sorprendenti. 

Seguendo Scholem, i principi che svolgono una funzione fondamentale nelle idee kabbalistiche circa la natura della Torah sono tre e si intrecciano tra di loro: il principio del nome di Dio; il principio della Torah come organismo; il principio della infinita ricchezza di significato della parola divinaTentiamo di illustrarli rapidamente. 

La concezione secondo cui la Torah non è soltanto ciò che vi si legge a prima vista, è molto antica ed ha anche radici magiche. Il passo di Giobbe secondo cui “Nessun mortale conosce il suo ordine” (Giobbe 28.13) era commentato in un antico midrash, al seguente modo: «Le diverse sezioni della Torah non sono state date nella loro giusta successione. Poiché se fossero state date nella loro giusta successione tutti coloro che la leggono potrebbero risuscitare i morti e fare miracoli. Per questo, la giusta successione e l'ordine della Torah è rimasto nascosto, ed è conosciuto solo dal Santo, che Egli sia lodato, di cui si legge: “Chi come Me li può leggere, annunciare e mettere in ordine.” (Isaia 44.7)». Nella Kabbalah tale idea viene ripresa e trasformata in quella secondo cui la Torah non è soltanto racconto ma nasconde una serie di nomi di Dio. Uno dei primi grandi kabbalisti spagnoli del Duecento, Moshé ben Nachman, scrive: «Noi possediamo una tradizione autentica secondo cui la Torah intera consiste di nomi di Dio, e questo in modo che le parole che leggiamo possono anche essere suddivise in una maniera completamente diversa, e precisamente in nomi […] Nell'affermazione dell'Haggadah, secondo cui la Torah fu scritta originariamente con fuoco nero su fuoco bianco, abbiamo un'evidente conferma della nostra opinione, che la stesura sia avvenuta continuativamente e senza suddivisione in parole, ciò che consentì di leggerla sia come una serie di nomi, sia nella maniera tradizionale, come storia e comandamenti.»23 Di qui la tradizione secondo cui un rotolo della Torah non è utilizzabile se manca una sola lettera: come osserva Ezra ben Shlomo di Gerona, la Torah non contiene neanche una lettera o un punto superfluo “poiché nella sua divina totalità rappresenta una costruzione che è stata edificata col nome del Santo, che Egli sia lodato.”24 D'altra parte, il pensiero kabbalistico recupera antiche idee della tradizione haggadica — come quella di un antico midrash secondo cui «Dio guardò nella Torah e creò il mondo», come se la natura fosse già prefigurata nella Torah 25 — e le porta a conclusioni radicali: il nome di Dio contiene allo stesso tempo un'infinita potenza e l'ordine del cosmo. La Torah quindi è un'essenza che preesiste al cosmo ed è strumento della creazione, sia in termini di potenza che di legge. 

Questa visione è espressa chiaramente dal cabbalista spagnolo della fine del XIII secolo, Joseph Gikatila. Secondo Gikatila, “l'intera Torah è qualcosa come una spiegazione o un commento del tetragramma JHWH” ed è, a sua volta, intessuta dai fili vivi del tetragramma: la Torah è quindi "textus": testo letterale e tessuto vivo. Il già menzionato Abraham Abulafià (che fu maestro di Gikatila) si chiede come fu scritta la Torah, e la sua risposta è che essa fu scritta mediante permutazioni di consonanti secondo principi nascosti. La riscoperta di questi principi può permettere di tornare indietro all'essenza del "nome di Dio" che ne costituisce il "mattone" linguistico. In conclusione, la Torah da un lato è comunicazione all'uomo e dall'altro è manifestazione cosmica della vita divina. Per i kabbalisti questo secondo aspetto è certamenteil più importante. 

Il punto di vista di Menachem Recanati (vissuto attorno al 1300) è esemplare della capacità dell'esegesi mistica di pervenire a conclusioni radicali, sotto la protezione della veste della tradizione: per Recanati, prima che fosse creato il mondo esistevano soltanto Dio e il suo nome e anzi Dio stesso è la Torah “poiché la Torah non è qualcosa al di fuori di Lui, ed Egli non è qualcosa al di fuori della Torah”. E Recanati spiega questa identificazione radicale fra Dio e parola, asserendo che le lettere sono il corpo mistico di Dio e perciò Dio sta alla Torah come l'anima sta al corpo.26 

Veniamo così al secondo aspetto: la Torah è un nome ma anche un organismo vivente. Difatti il "nome" non è un assoluto astratto e statico ma un processo: la Torah è espressione del processo vivente del "nome", della vita divina, la quale si manifesta come un organismo. Nello Zohar, la Torah è definita "albero della vita" e come un albero ha rami, foglie, corteccia, midollo e radici. Le membra di questo organismo sono talora viste come le membra della presenza divina o Shekhinah.27 Non ci addentreremo su questa questione che conduce a uno degli aspetti fondamentali della speculazione kabbalistica — la dottrina delle Sefiròth o "canali" dell'influsso di Dio del cosmo28 — che costituisce un'altra espressione dello sforzo dei kabbalisti di riempire in ogni modo il fossato fra Dio e uomo, fra Dio e cosmo. Ma è possibile già cogliere in modo evidente questa istanza in quanto si è fin qui detto: legge cosmica e legge terrena non sono separate ma sono soltanto due facce della Torah. La prima è la Torah scritta, o "luce bianca", che trova la sua forma terrena nella Torah orale, quella che possiamo leggere, scritta con "fuoco nero su fuoco bianco", come l'inchiostro sulla pergamena.29 Il mistico non deve arrestarsi di fronte a questa faccia terrena, testuale della Torah, ma deve avere il coraggio di procedere oltre per accedere alla comprensione di strati sempre più profondi di significato che lo avvicinano al mistero della vita divina e del cosmo. 

Perveniamo così al terzo aspetto, quello della infinita ricchezza di significato della parola divina, sul quale la Kabbalah ha avuto un'importante interazione con il pensiero rinascimentale. Ci riferiamo alla dottrina del quadruplice significato della Scrittura che si trova enunciata, anche se con alcune significative diversità, nelle opere di Mosé de Leon (considerato l'autore della parte principale dello Zohar), di Bahya ben Asher e Joseph Gikatila (tutti della fine del secolo XIII). 

Scrive Mosé de Leon nel suo Midrash ha-Ne'elam al Libro di Ruth:30 «Le parole della Torah sono paragonate a una noce. Che cosa significa questo? Esattamente come la noce ha un guscio esterno e un nucleo interno, così anche ogni parola della Torah contiene ma'aseh, midrash, haggadah e sod, e in ogni momento rappresenta un senso più profondo di quello precedente».31 I quattro strati di significato della parola cui si fa riferimento possono essere così definiti: Ma'aseh è il significato letterale (si noti che ma'aseh in ebraico significa insieme racconto, opera, atto e evento); Midrash è il risultato del metodo ermeneutico con cui gli halakhisti del Talmud trovavano le loro disposizioni nel testo biblico; Haggadah è probabilmente il prodotto della forma allegorica o metaforica di interpretazione; Sod è il mistero, ovvero il senso nascosto più profondo. La differenza fra il secondo e il terzo livello non è definita ancora in modo chiaro. Una distinzione chiara — quella che poi resterà nella tradizione dominante — si trova più tardi nella reinterpretazione che Mosé de Léon da dell'antica storia talmudica dei quattro rabbini, Akibà, Ben Zoma, Ben Azzai e Aher: essi entrarono al paradiso e «l'uno vide e morì, il secondo vide e perse il senno, il terzo isterilì le giovani piantagioni. Solo rabbi Akiba entrò sano e uscì sano.» Per Mosé de Léon le quattro consonanti PRDS della parola "paradiso", PARDÈS, sono il simbolo dei quattro strati di senso della parola. L'equivalenza è la seguente: P = Peshat = senso letterale = Rabbi Asher che vide e morì; R = Remetz = senso allegorico = Rabbi Ben Zoma che vide e perse il senno; D = Derasha = interpretazione talmudica = Rabbi Ben Azzai che isterilì le giovani piantagioni (cioé traviò i giovani); S = Sod = mistero o significato mistico = Rabbi Akibà che entrò sano e uscì sano spingendosi fino al nucleo. 

Non mi fermo sulle molte altre classificazioni degli strati di senso, se non per dire che questa dottrina è un elemento caratteristico di tutta la Kabbalah e si sviluppa in costante polemica con la dottrina del significato univoco e quindi con ogni visione oggettivistica della Torah. Così lo Zohar insiste che “in ogni parola brillano molte luci” e si spinge fino a questa audacissima osservazione: «Guai a colui che considera la Torah come un libro di semplici racconti e faccende quotidiane. Poiché se essa fosse questo, ancora oggi potremmo comporre un'altra Torah che trattasse di queste cose e fosse molto migliore ancora». Il senso letterale della Torah è oscurità, mentre il senso mistico è Zohar, splendore. E, nella svalutazione dell'interpretazione testuale, Mosé Cordovero di Safed si spinge ancora più avanti, osservando che la Torah materiale contiene divieti “angosciosi” e “miserabili” che sarebbero incomprensibili senza la caduta dovuta al peccato originale. 

Effettivamente, nella Kabbalah di Safed la dottrina degli strati di senso assume una forma davvero radicale. Isaac Luria sostiene che 600.000 erano le anime di Israele che ricevettero la Torah sul monte Sinai e “ di conseguenza ci sono anche 600.000 aspetti e spiegazioni della Torah” mentre Mosé Cordovero aggiunge che ciascuna delle 600.000 anime ha nella Torah un settore soltanto suo, “e a nessun altro se non a quello la cui anima proviene di lì sarebbe permesso di intenderla in questa maniera particolare e individuale, riservata soltanto a lui.”32 Inoltre i kabbalisti di Safed approfondiscono l'analisi di come si è sviluppata la Torah dalla forma anteriore al peccato originale a quella attuale. Secondo Mosé Cordovero, la Torah era all'inizio soltanto nome di Dio ovvero la configurazione della luce divina; poi essa si spezzò in una molteplicità di nomi divini, per decomporsi ulteriormente negli attributi che descrivono il divino e infine in parole che sono riferite a eventi terreni. Cordovero formula così una vera e propria concezione cosmogonica al cui centro è la parola o il nome di Dio, la quale è anche una concezione cosmologica, poiché ai quattro strati di senso corrisponde una strutturazione del mondo in quattro mondi che sono i quattro stadi di materializzazione della forza creatrice di Dio. Essi sono, dall'alto verso il basso: il mondo dell'emanazione (’Atsiluth); il mondo della creazione (Beri'ah); il mondo della formazione (Yetsiràh); il mondo dell'attivazione o azione ('Asiyàh). Questa strutturazione che è continuamente operante ed è l'Universo in cui viviamo — di cui il mondo dell'azione è soltanto lo strato materiale direttamente a noi visibile ma per nulla più concreto o più legato alla nostra esistenza degli altri — corrisponde a un processo cosmogonico: dalla veste originaria della Torah nel mondo di Atsiluth, che era la serie di tutte le combinazioni di consonanti che possono essere formate con l'alfabeto ebraico, scaturì nel secondo mondo (Beri'ah), per un movimento linguistico dell'infinito (En-Sof), la rivelazione della Torah come serie di sacri nomi divini. Nel terzo mondo la Torah diviene una serie di nomi e di potenze angeliche e soltanto nel mondo dell'attivazione la Torah assume la veste terrena a noi direttamente conosciuta. 

Questa dottrina assume una veste ancora più radicale, che susciterà scandalo negli ambienti rabbinici ortodossi, quando il kabbalista del Settecento Eliyahu Kohen Ittamari di Smirne scriverà che all'inizio davanti a Dio “c'era soltanto una serie di lettere non congiunte in parole […] poiché la disposizione vera e propria delle parole doveva avvenire secondo il modo in cui si sarebbe comportato il mondo inferiore”.33 Il rotolo della Torah — osserva Kohen — non contiene nessuna vocale “per ricordare che la Torah originariamente formava un mucchio di lettere non ordinate” che assumono la forma attuale a causa della caduta di Adamo. Così la Torah contiene idee negative come quelle di morte e di impurità che verranno soppresse dalla venuta del Messia: ciò non vuol dire che la Torah non abbia valore eterno, ma soltanto che Dio ci insegnerà a leggerla in un modo che eliminerà le impurità in essa contenute. 

Prendendo come base quanto fin qui detto svilupperemo ora alcune considerazioni attinenti al tema principale di questo articolo. Vogliamo tuttavia avvertire che la nostra scelta di analizzare il nostro soggetto sotto il profilo della visione cosmogonica e cosmologica kabbalistica e della teoria del linguaggio è del tutto opinabile: le relazioni fra il pensiero mistico ebraico e la scienza possono essere considerate alla luce di altre connessioni e parallelismi più noti e dirette, come quella fra Kabbalah e alchimia. In un lungo saggio Scholem ha analizzato a fondo il rapporto fra Kabbalah e alchimia:34 le conclusioni di questo saggio avvalorano tuttavia la nostra scelta, perché esse mostrano come quel rapporto sia meno significativo di quanto ha voluto far credere una lunga tradizione che, dal momento in cui alla fine del Medioevo il mondo culturale europeo conobbe la Kabbalah, ha raccolto sotto questo termine un pò di tutto, teosofia, saggezza ermetica, occultismo, magia e anche l'alchimia. E'  indubbio che nella Kabbalah siano presenti tendenze magiche, come vedremo anche trattando del mito del Golem. E' quindi comprensibile che la Kabbalah abbia avuto contatti con l'oggetto centrale dell'alchimia, e cioé la trasmutazione dei metalli, sopratutto quando le pratiche connesse ai tentativi di trasmutazione facevano ricorso a interventi magici in cui la parola aveva un ruolo essenziale. E' inoltre noto che, dal 1850, si svilupparono vari tentativi di reinterpretare l'alchimia come un complesso di processi interni alla vita spirituale dell'uomo, secondo i quali il processo della trasmutazione altro non era che il simbolo di un processo di purificazione dell'anima. Questa tendenza ebbe inizio con i lavori di M. A. Atwood e fu ripresa da un allievo di Freud, Herbert Silberer, e introdotta nella psicanalisi, nel cui contesto Jung integrò questa visione dell'alchimia con la sua psicologia analitica fondata sulla concezione degli archetipi. Di qui il tema di un possibile rapporto fra questo lato spiritualistico dell'alchimia e la Kabbalah, in particolare le forme di Kabbalah estatica che ricercavano delle vie di purificazione dell'anima nel suo congiungimento con Dio. L'ostacolo sulla via di questi tentativi interpretativi è semplice quanto serio ed è stato messo in luce da Scholem attraverso una lunga serie di analisi testuali: mentre il tema centrale dell'alchimia è la trasmutazione dei metalli nell'oro, la simbolologia kabbalistica ha come riferimento e immagine centrale l'argento. L'argento è il simbolo della mano destra, dell'amore, della grazia dispensatrice, del bianco e del latte, mentre l'oro è simbolo della sinistra, del giudizio rigoroso e implacabile, del rosso, del sangue e del vino. Tutti i tentativi esistenti nella letteratura kabbalistica di invertire il ruolo fra oro e argento (che non sono molti, ma significativi) portano alla conclusione che il rapporto fra alchimia e Kabbalah sia consistito in un influsso della prima sulla seconda. D'altra parte, non mancano prove della scarsa considerazione in cui era tenuta l'alchimia in gran parte degli ambienti ebraici spagnoli, come testimonia il giudizio severo espresso su di essa da Juda ben Salomon Cohen di Toledo, autore di un'enciclopedia ebraica delle scienze verso la metà del XIII secolo. 

Torniamo ora al tema del quadruplice strato di senso delle Scritture. Esiste un noto legame fra questa concezione kabbalistica e la tradizione teologica cristiana che parla (fin dal secolo VIII) di quattro punti di vista: quello della storia, dell'allegoria, della tropologia (ovvero del punto di vista omiletico-morale) e dell'anagogia (ovvero dell'interpretazione delle Scritture in rapporto col fine ultimo).35 La presenza di tematiche analoghe nel mondo musulmano e il fatto che queste idee si cristallizzino in modo chiaro nella Kabbalah spagnola, sopratutto in territorio cristiano, è un indizio di un'importante interazione che culminò nel grande interesse del pensiero umanistico per la Kabbalah. Esso è testimoniato, ad esempio, dalla seguente affermazione di Pico della Mirandola (contenuta nella sua Apologia fratris Archangeli de Burgonovo): «Proprio come noi, anche gli ebrei conoscevano quattro metodi per spiegare la Bibbia, quello letterale, quello mistico o allegorico, il metodo tropico e quello anagogico. Chiamano il senso letterale peshat, quello allegorico midrash, il senso tropico sekhel, e il senso anagogico — che è quello più sublime e divino — Kabbalah.» Pico della Mirandola fu lettore attento e appassionato della Kabbalah, che riteneva potesse addirittura fornire il metodo per dimostrare i principi della teologia cristiana e non minore fu l'interesse che ebbe per essa J. Reuchlin. Tuttavia, se l'influsso del pensiero kabbalistico sulla cosidetta Kabbalah cristiana e, per tale via, sul pensiero umanistico e rinascimentale, è un tema conosciuto e studiato,36 non è consentito andare oltre. Difatti, la scienza del Seicento presenta un elemento radicale di rottura proprio nei confronti della dottrina della molteplicità degli strati di senso. La scienza dal Seicento in poi ha come cardine fondamentale l'oggettivismo, l'univocità del significato e dell'interpretazione della realtà. Questa concezione dell'oggettività del reale ha come presupposto la separazione totale fra osservatore e osservato: la spaccatura fra Dio e uomo e fra uomo e cosmo che il pensiero kabbalistico si proponeva di colmare, si ripresenta nei termini di una spaccatura fra uomo e cosmo. Anche la cosmologia cristiano-tolemaica proponeva una divisione del mondo in due parti rigidamente divise: da un lato il mondo terreno, mondo della generazione e della corruzione non assoggettabile a conoscenze certe e dall'altro il mondo celeste le cui leggi, scientificamente determinabili e determinate dal sistema tolemaico, erano il riflesso della perfezione divina — una divisione che era il riflesso della divisione fra uomo e Dio. La scienza moderna propone di abbattere la barriera che divide mondo terrestre e mondo celeste, unificando l'universo ma introducendo un'altra spaccatura necessaria all'introduzione di una visione oggettivistica dell'universo stesso, e cioé la divisione fra uomo e cosmo. L'uomo diviene "osservatore esterno" distinto dal mondo, la sua natura e il senso della sua vita è rinviato al dominio della teologia o al mistero — a meno di non adottare una forma di materialismo integrale che ricerchi quella natura e quel senso nelle stesse leggi oggettive dell'Universo materiale. Pertanto, se la contrapposizione fra scienza e teologia cristiana è radicale, ancora più profonda è la contrapposizione con la visione unitaria kabbalista. 

Circa le origini dell'oggettivismo scientifico ci limiteremo qui a dire che si tratta di un tema che la storia della scienza ha stranamente assai poco studiato. Tenteremo piuttosto di seguire la contrapposizione sopra accennata in un altro tema che unisce in modo evidente il pensiero kabbalistico con le prime forme di pensiero scientifico. Alludo al ruolo della parola nella speculazione kabbalistica: la parola non è mai soltanto significato esteriore e neppure commento o allegoria, ma anche e sopratutto significato profondo, simbolo di un processo sostanziale che può essere scoperto scortecciando la noce degli strati di senso. Sottolineo il termine simbolo, in contrapposizione con il valore testuale della parola ma anche con l'allegoria: infatti, per la Kabbalah il simbolo non è soltanto allegoria ma è contenuto,37 non soltanto descrizione ma significato di un processo. Al punto che la parola ha un valore magico: «Ometti una lettera o scrivi una lettera di troppo e distruggi il mondo», racconta un antico midrash.38 Ma si pensi anche alla mistica numerica, cioé all'uso delle tecniche di identificazione dei concetti mediante l'equivalenza numerica delle parole che li esprimono.39 Moshe Idel, in un affascinante saggio,40 ha ricostruito la genesi del principio Deus sive Natura in Spinoza, mostrando come l'identificazione fra Dio e natura nasca nel contesto della letteratura kabbalistica, in particolare nell'opera di Abraham Abulafià e negli sviluppi dovuti al suo allievo Joseph Gikatila ed esposti nel suo trattato Ghinat Egoz. Idel mostra con ricchezza di dettagli l'influsso indiretto avuto da Maimonide nella formulazione dell'identità Dio-Natura, e inoltre come il trattato di Gikatila, stampato a Hanau nel 1615, fosse considerato un classico della Kabbalah che circolava ampiamente negli ambienti filosofici dell'epoca e quindi era certamente conosciuto da Spinoza. Si è visto come l'identificazione Dio-Natura corrisponda a un'idea fondamentale della Kabbalah e cioé alla proiezione dell'ordine naturale sull'ordine divino, “facendo così della Bibbia — osserva Idel — la fonte essenziale dell'acquisizione della realtà, sia della storia che della natura.” Questa identificazione è fondata sulla osservazione — che compare per la prima volta nel trattato Ghet ha-Shemot di Abulafià — che esiste un'identità numerica fra il nome Elohim (Dio) e il nome ha-Tèva (natura): entrambi hanno il valore numerico 86. Abulafià rileva che i nomi "divini", capaci di cambiare l'ordine della natura, hanno tutti il valore numerico 86. Nel suo trattato successivo Sefer ha-Hèsheq, scrive: «Le tavole [della legge] sono un omonimo delle cose naturali interiori, perché tavole è equivalente a Kissé (trono) che è Teva (Natura) e esse sono [omonimo del]le cose esterne che sono le tavole di pietra.» Si è detto come l'idea che le tavole della legge siano simultaneamente divine e naturali è tratta da Maimonide, e precisamente dalla sua Guida degli Smarriti,41 ma è qui kabbalisticamente "dimostrata" sulla base della identità numerica dei loro nomi. «Il nome Elohim — continua Abulafià — comporta più sensi: è un appellativo della totalità delle forze naturali; fa parte dei nomi della Causa prima, e si riferisce anche a uno dei Suoi attributi, per i quali Egli è separato dalle altre entità.» Potremmo continuare, ma questo esempio serve non tanto a ribadire concetti già sottolineati, quanto ad osservare che l'uso delle tecniche di identificazione numerica (che è l'aspetto che ha dato luogo all'immagine tradizionale e "popolare" della Kabbalah) non è un procedimento di manipolazione con cui si ottengono delle identificazioni concettuali come conseguenza di un puro gioco di identità numeriche. E' vero il contrario. L'uso delle identità numeriche è una sorta di procedimento dimostrativo della verità di concetti ottenuti attraverso l'esegesi mistica e quindi della verità delle leggi fondamentali che regolano la vita di Dio e del cosmo. Pur nell'evidente ingenuità di una procedura così primitiva, ci troviamo di fronte a una prima forma di uso di una sorta di calcolo simbolico-aritmetico allo scopo di determinare le leggi dell'Universo. Certo, queste leggi non sono cercate nello studio della Natura, ma nello studio della Torah: ma la Torah è la Natura. 

Constatiamo quindi che non soltanto la dottrina del quadruplice strato del senso ma, come ha osservato Idel, anche l'idea che “il libro divino è la chiave che permette di comprendere il libro della natura […] finisce per introdursi nel pensiero del Rinascimento per l'intermediario di Pico della Mirandola”. E vi si introduce assieme a una visione neopitagorica secondo cui le leggi del libro della Natura sono dato mediante regole numeriche. E' evidente l'assonanza con l'idea di Galileo secondo cui il libro della Natura è stato scritto da Dio in linguaggio matematico ed è compito dell'uomo scoprire questo linguaggio, le sue leggi. Certo, in Galileo quest'idea è ormai congiunta a una visione oggettivistica che esclude la ricerca di queste leggi nell'esegesi delle Sacre Scritture, perché esse non si identificano più con Dio: vale l'identità Dio=Natura, ma non più l'identità Dio=Sacre Scritture. E, per quanto la transizione sia graduale e complessa e sarebbe una forzatura grossolana attribuire a Galileo (come del resto a tutta la scienza del Seicento e del Settecento) una visione apertamente sperimentalista, è innegabile che stiamo assistendo alla nascita dell'oggettivismo, all'emergere di un nuovo abisso, di una nuova spaccatura — quella fra uomo e Natura — che finirà progressivamente con l'abolire o mettere in secondo piano l'identità Dio=Natura che pure ha un ruolo concettuale fondamentale nella nascita del pensiero scientifico moderno. Questo punto di partenza continua tuttavia a giocare un ruolo fortissimo nell'idea che il mondo è scritto nel linguaggio dei numeri, in simboli, infine in formule. 

Assistiamo così a un affascinante paradosso. L'influsso della concezione cosmologica e cosmogonica unitaria della Kabbalah (e in particolare l'identità Dio=Natura) ha un ruolo importante nella formazione della scienza moderna, nell'idea che esistono delle leggi fondamentali della Natura e che esse sono esprimibili in termini simbolici. Ma una volta conquistata l'idea della rappresentazione simbolica, l'esigenza dell'oggettivismo e dell'univocità del significato — inerente all'ambizione della scienza di costituirsi come unico sapere certo — introduce una divisione fra cosmo e uomo, fra osservatore e osservato. La verità unica non va ricercata nel molteplice senso delle Sacre Scritture, ma nella realtà materiale da cui va estratta la struttura simbolica assolutamente univoca. Cade il molteplice strato del senso — nella materia e non nella parola noi dobbiamo ricercare la verità — cade l'identificazione Dio=Sacre Scritture, l'identificazione Dio=Natura diviene facoltativa, in quanto viene trasferita nella sfera della coscienza religiosa individuale. Il simbolo conserva però un valore cruciale, che da numerico diviene geometrico e poi, più in generale, matematico. L'idea della matematica come simbolo e non come descrizione o allegoria è fondamentale: è possibile difatti dare un'infinità di esempi del fatto che la matematica non è stata quasi mai concepita nella scienza come mero strumento e ausilio tecnico, ma piuttosto come senso ed essenza della realtà. Forse il protestante pragmatico Newton aveva un'idea un pò più pratica della matematica, ma tutta la storia della meccanica è percorsa dall'idea che la legge della dinamica è l'essenza dell'Universo. f = ma è simbolo ed essenza dell'Universo come per i kabbalisti Elohim = ha-Teva = 86 è un'equazione che svela il segreto della vita cosmica e divina. «Un'intelligenza — scrive l'ateo e materialista Laplace nel 1795 — che a un istante dato conoscesse tutte le forze da cui la natura è animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse abbastanza vasta da sottomettere questi dati all'analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i moti dei più grandi dell'universo e quelli dell'atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa, e l'avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi.»42 E pochi anni dopo, uno dei più grandi fisicomatematici dell'Ottocento, Joseph Fourier, scriverà che “l'analisi matematica è estesa quanto la Natura; essa definisce tutti i rapporti sensibili […] Non può esservi linguaggio universale e più semplice, più esente da errori e da oscurità, cioé più degno di esprimere i rapporti invariabili degli esseri naturali.”43 E persino nel nostro secolo, in cui sembrano cadute le speranze di una visione unitaria dell'Universo e la scienza ha sempre più i connotati di un sapere pratico, gli esponenti del movimento più formalista della matematica, i "bourbakisti", non rinunciano a una visione mistica della matematica: «… la matematica appare come una riserva di forme astratte — le strutture matematiche — e accade — senza che si sappia bene perché — che certi aspetti della realtà sperimentale si modellano entro certe di queste forme come per una sorta di preadattamento44 

D'altra parte, chiunque sia stato a contatto con l'attività scientifica basata sull'uso della matematica sa quanto sia forte la visione simbolica e demiurgica della formula. Parafrasando il kabbalista, lo scienziato fisicomatematico è come mosso dall'idea segreta (e neppure tanto…) che “omettendo o aggiungendo un indice in una formula si modifica il mondo.” 

Ma se questo influsso è chiaro e ne sono chiare le radici, resta nondimeno la grande divergenza sul tema dell'oggettivismo e dell'univocità del senso. 

E' una divergenza che seguiremo ora su un'altra traccia che non è stata finora ben vista e tantomeno studiata. 

Come ha osservato Scholem, un'idea fondamentale della Kabbalah è quella del reciproco intreccio di tutti i mondi e di tutti i gradi dell'essere: tutto è connesso a tutto ed è contenuto in tutto. Due immagini riflettono questi due livelli di connessione presenti in tutte le ontologie kabbalistiche: quella della catena infinita dell'essere e della connessione dei suoi anelli e quella delle bucce inserite l'una dentro l'altra, espressa nel simbolo della noce. Immagini pienamente contraddittorie dal punto di vista figurale, perché si riferiscono l'una alla concatenazione, l'altra all'inclusione. «Ma — osserva Scholem — la realtà del mondo spirituale e la sua connessione con quello naturale, che tali immagini si propongono di simboleggiare, non ha, per i kabbalisti, nulla di contraddittorio — dopo tutto entrambe le immagini si ritrovano, l'una vicino all'altra, negli scritti dell'autore dello Zohar. Anche nella catena dell'essere tutto è magicamente inserito in tutto».45 Come dice Mosé Cordovero: «lì dove tu stai stanno a loro volta tutti i mondi.» 

Questa sintesi di ontologie così diverse e apparentemente contraddittorie è possibile perché nella Kabbalah mondo naturale e mondo spirituale non possono e non debbono essere divisi. La catena infinita dell'essere è immagine dell'ordine lineare, graduato e concatenato del mondo naturale; mentre l'inclusione delle bucce della noce l'una nell'altra si riferisce alla molteplicità degli strati del senso. Ma la necessità che questi due ordinamenti coesistano e della coerenza fra naturalità e intellegibilità, è espressa in modo chiarissimo nello Zohar: «Era necessario al Santo, sia benedetto, disporre di tutto ciò per creare il mondo, le scorze erano indispensabili per mettere ordine in esso, perché esse possiedono tutte un cervello nella loro interiorità. E quanto sono numerose le scorze che racchiudono un cervello! Ogni mondo è formato secondo questo principio, sia il mondo di In-alto che il mondo di In-basso. A partire dal fremito iniziale del punto supremo, fino ai confini delle cose, esse sono tutte inviluppi le une delle altre, cervello all'interno di un altro cervello, soffio dentro un altro soffio, così inscatolate, che l'una è scorza per le altre e così di seguito.»46 

Il tema del catena infinita dell'essere è fondamentale nella storia del pensiero filosofico e nella formazione di alcuni aspetti centrali del pensiero scientifico moderno in quanto rappresenta l'aspetto naturalistico della connessione totale del mondo. L'interesse per questo tema fu suscitato dal libro La Grande Catena dell'Essere scritto nel 1936 dal teorico e fondatore della storia delle idee A. O. Lovejoy.47 Non è strano, per ragioni cronologiche, che la ricerca di Lovejoy non sia stata influenzata dalle ricerche sulla storia della Kabbalah, che sono iniziate in modo sistematico e rigoroso soltanto nel periodo in cui Lovejoy scriveva il suo libro. Lovejoy osserva che “per quanto gli ingredienti di questo complesso di idee derivassero da Platone e da Aristotele, è nel neoplatonismo che esse compaiono pienamente organizzate in uno schema generale e coerente delle cose” e accenna di passaggio al ruolo che ebbero le idee gnostiche nell'evoluzione di questo concetto nel Medioevo. Ciò suggerisce (tenuto conto anche dei legami fra Kabbalah e gnosticismo) quanto possa essere promettente una ricerca sul contributo che la Kabbalah può aver dato alla formazione e allo sviluppo del concetto di "catena dell'essere". 

Per intendere le implicazioni della presenza della Kabbalah nella storia di questo concetto, accenniamo a uno dei modi in cui esso influì nella formazione della scienza moderna. Tralasciando temi pur interessantissimi, come quello del suo ruolo nella biologia del Settecento, mi riferisco alla sua presenza nel pensiero di Spinoza e sopratutto di Leibniz, in connessione con il principio di ragion sufficiente. Come osserva Lovejoy, per Leibniz, “le caratteristiche essenziali dell'universo […] sono la pienezza, la continuità e la gradazione lineare. La catena è formata dalla totalità delle monadi, disposte in una serie gerarchica che va da Dio fino al gradino più basso della vita sensibile, senza che ve ne siano due eguali, ma ciascuna si differenzia per il minimo possibile grado da quelle che immediatamente la seguono o precedono nella gerarchia stessa.”48 Questo carattere pieno, graduato, continuo e lineare dell'Universo è la condizione stessa perché funzioni il principio di causalità. 

La connessione fra pienezza e causalità è del resto evidente nell'opera di Descartes, in cui la pienezza dello spazio garantisce che la trasmissione dell'azione fra corpi avvenga per contatto diretto e per contiguità ed è quindi la condizione per la trasmissione della causa (in particolare nella teoria dei vortici). Anche in Leibniz la connessione tra pienezza e causalità è forte e ancor più esplicita e da luogo a una visione globale della struttura dell'Universo che, nel contesto della metafisica panpsichistica leibniziana, è come una struttura graduata in termini psicologici piuttosto che morfologici. Osserva Leibniz:
«Tutte le diverse classi di esseri che presi assieme costituiscono l'universo, sono, nelle idee di Dio, che conosce distintamente le loro gradazioni essenziali, altrettante ordinate di una sola curva, così strettamente unite che sarebbe impossibile porne altre fra l'una e l'altra di esse, dato che ciò implicherebbe disordine e imperfezione. Così gli uomini sono legati agli animali, questi alla piante e le piante ai fossili, che a loro volta si fondono con quei corpi che i nostri sensi e la nostra immaginazione ci rappresentano come assolutamente inanimati. E, poiché la legge della continuità esige che quando gli attributi essenziali di un essere si approssimano a quelli di un altro tutte le proprietà dell'uno debbano egualmente approssimarsi per gradi a quelle dell'altro, è necessario che tutti gli ordini di esseri naturali non formino se non una sola catena, in cui le diverse classi, come altrettanti anelli, sono così strettamente connesse le une alle altre che è impossibile per i sensi o per l'immaginazione determinare esattamente il punto in cui una finisce e l'altra comincia […]».49
Si noti sopratutto l'aspetto della continuità che è presente nell'idea della grande catena dell'essere e deriva direttamente dal principio della pienezza. Viene alla mente la connessione con gli sviluppi del calcolo infinitesimale, di cui Leibniz fu con Newton uno dei creatori. Ma l'immagine matematica che propone Leibniz per rappresentare assieme continuità e gradazione è molto più precisa: il concetto di monade viene difatti da lui tradotto in quello di differenziale che contiene l'idea di continuità (nella nozione di infinitesimo) e di cui egli pensa la infinita serie di potenze come corrispondente alle gradazioni infinite del sistema delle monadi che compongono la grande catena.50 Quindi il calcolo dei differenziali rappresenta in modo completo il cosmo perché ne descrive la concatenazione che è strettamente lineare ("ordinate di una sola curva") e quindi mono-causale e al contempo graduata, sia in termini di gradazioni morfologiche che in termini di gradi sempre più elevati di conoscenza. Ma è una concatenazione lineare e univoca, senza diramazioni né strati. Così il simbolo kabbalistico della catena infinita dell'essere si ritrova nella scienza moderna e proprio in uno dei suoi luoghi fondamentali dove si formano i concetti di base dell'analisi matematica moderna — il calcolo infinitesimale — ma non altrettanto accade per l'altro simbolo, quello della noce dagli infiniti gusci l'uno incluso nell'altro. Perdendosi il secondo simbolo, la linea dell'essere non si avvolge più come a spirale su un'infinita stratificazione di significati: il significato è uno solo ed è aperta la strada al concetto centrale della scienza moderna, il principio di causalità, il determinismo, l'univocità dei fatti e delle leggi che li regolano. 

Nulla meglio di questa esclusione di una delle due immagini misura il rapporto e allo stesso tempo la radicale divaricazione fra il pensiero kabbalistico e il pensiero scientifico moderno. 

E' possibile dare un altro esempio non meno interessante del conflitto fra l'oggettivismo scientifico moderno e la dottrina della molteplicità del significato. Riferiamoci ancora alla tradizione kabbalistica che vede nella Torah "iniziale" un complesso di nomi, di lettere, anzi “un mucchio di lettere non ordinate” (per usare l'espressione di Eliyahu Kohen Ittamari di Smirne) o una "confusa mescolanza di lettere” (secondo la terminologia attribuita nella tradizione hassidica a Israel Ba'al Shem). Scholem ha osservato che “questa concezione decisamente naturalistica della Torah ricorda, in certo senso, la teoria atomistica di Democrito”51 ricordando come il termine greco stoicheion abbia il doppio significato di lettera ed elemento ovvero atomo. Ma che tale atomismo delle lettere (nella duplice accezione della natura e del senso) sia già presente in Democrito e, più in generale nella filosofia greca, e quindi possa aver influenzato la Kabbalah, risulta chiaro da un passo di Aristotele contenuto nel Della generazione e della corruzione
«Democrito e Leucippo pongono le "figure" [gli atomi] e fanno derivare da queste l'alterazione e la generazione, e precisamente la generazione e la corruzione dalla dissociazione o dall'associazione di queste figure, e l'alterazione dal loro ordine e dalla loro disposizione. Poiché essi erano del parere che la verità risiede nelle apparenze e poiché le apparenze sono contrarie tra loro e infinite, essi concepirono un numero infinito di "figure",52 di guisa che, secondo i mutamenti del corpo composto, la medesima cosa appare a chi in un modo e a chi nel modo contrario, e sostenevano che un corpo subisce un mutamento qualora si mescoli ad esso un altro corpo benché piccolo, e che appare completamente diverso quando uno solo dei suoi componenti sia stato spostato: difatti dalle medesime lettere dell'alfabeto risultano composte tanto una tragedia quanto una commedia53
Questo tipo di atomismo che anticipa la visione kabbalistica secondo cui le lettere, nelle loro diverse combinazioni, producono i diversi aspetti del mondo, si contrappone a quello moderno, in cui l'aspetto della molteplicità è sparito e l'atomo è soltanto un oggetto materiale perfettamente definito nel suo univoco significato. 

Viene da chiedersi cosa ne sia di questo conflitto nel nostro secolo, dopo che la visione rigidamente determinista e oggettivista della scienza ha subito tanti collassi — e in particolare quello causato della meccanica quantistica che, colpendo al cuore il dogma della determinabilità dei processi del moto a partire dalla conoscenza degli stati iniziali, ha riproposto il problema del ruolo dell'osservatore, mettendo in discussione la sua espulsione dal campo dei fenomeni osservati, la divisione fra soggetto e oggetto. Diremo qualcosa su questo punto, in conclusione, ma vogliamo prima sottolineare come vi sia almeno un altro luogo dello sviluppo scientifico in cui la problematica della Kabbalah si è proposta in modo naturale, quasi come un terreno dove ricercare una risposta a delle difficoltà di prospettiva. 

L'esempio è dato dalle riflessioni contenute in un libretto di Norbert Wiener dal titolo God & Golem.54 Per quanto Wiener fosse interessato alla cultura ebraica, non era certo un cultore della Kabbalah e le considerazioni sommarie, se non grossolane, che egli svolge possono lasciare delusi. Eppure, alla luce del vero significato del mito kabbalistico del Golem, esse presentano lati di grande interesse. 

Parlare a fondo del mito del Golem richiederebbe un'altro articolo. Mi limiterò a ricordare che, come ha mostrato Scholem,55 il mito kabbalistico del Golem rappresenta un complesso di riflessioni sul tema della creazione ben più vasto e profondo del racconto fantastico diffuso nel corso dell'Ottocento da Jakob Grimm e poi ripreso nel romanzo Der Golem di G. Meyrink che narra del famulo di argilla costruito dal Rabbino di Praga e che cresceva di statura fino a assumere proporzioni pericolose a meno che non lo si distruggesse in tempo cancellando la lettera aleph dalla scritta che portava in fronte: quella scritta era eméth (verità) e l'eliminazione della aleph la trasformava in meth (morte), producendo così la sua distruzione magica. Golem è una parola ebraica che sta per "massa informe" e che compare nella Bibbia soltanto nel Salmo 139.16, dove si dice: «Io ti celebrerò, perché sono stato fatto in modo meraviglioso, stupendo. […] I tuoi occhi videro la massa informe (Golem) del mio corpo; e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che m'erano destinati.» Scholem ha mostrato che un filone che ha origine in alcuni midrashim del II e III secolo interpreta l'Adamo non ancora raggiunto dal soffio di Dio, come Golem o massa informe. In questi midrashim Adamo viene descritto addirittura come un Golem di dimensioni e forze cosmiche che possedeva prima dell'infusione della forma superiore di anima (neshamah),56 una forma primitiva di anima tellurica (Ruah) non insufflata dall'alto, che gli permetteva di avere una sorta di coscienza della storia del creato: « […] nell'ora in cui Dio creò il primo Adamo lo creò come Golem, ed egli si estendeva da un capo all'altro del mondo, come si legge nel Salmo 139: “Il mio Golem videro i tuoi occhi.” Rabbi Yeudah bar Shim'on disse: Mentre Adamo era ancora un Golem che giaceva davanti a colui che parlò, e nacque il mondo, egli gli mostrò tutte le generazioni e i loro saggi, tutte le generazioni e i loro giudici, tutte le generazioni e i loro capi. […] Egli lo creò come un Golem, che dalla terra arrivava a toccare il cielo, e infuse in lui l'anima.»57 Quindi, prima della creazione, Adamo è la rappresentazione della materia informe che riempie l'intero universo e della forza che in essa si raccoglie ed è dotato di un'anima tellurica che possiede una sorta di "coscienza storica". La caduta del peccato originale riduce di colpo Adamo alla forma umana e limitata. 

Il mito del Golem pone il problema della ripetibilità o meno dell'atto creativo, che è un altro tema centrale della riflessione kabbalista. E' ben vero che l'uomo appare incapace di ripetere la creazione a causa dei limiti impostigli dal peccato, ma qui interviene di nuovo il carattere mistico della Torah in quanto manifestazione ed essenza dell'atto creativo. Chi conoscesse la Torah nella giusta disposizione delle lettere potrebbe fare miracoli e ricreare un Golem dotato di un'anima tellurica. Si noti che la capacità di crescere illimitatamente che ha il Golem ricreato dall'uomo a partire dalla manipolazione dell'argilla con formule e lettere magiche, costituisce una sorta di processo rovesciato rispetto alla riduzione di dimensioni dovuta alla caduta del peccato. 

Nella formazione del mito del Golem — inteso come ripetizione umana dell'atto creativo — ha avuto un ruolo importante il libro Yetsirah (Libro della Creazione) scritto da un neo-pitagorico ebreo nel III o IV secolo. Graetz ha ipotizzato l'esistenza di legami fra questo libro e taluni scritti dell'epoca cosidetti "pseudo-clementini", che sono un miscuglio di elementi gnostici ebraici, cristiani e ellenistici, nonché le omelie sulle trasformazioni pneumatiche di cui Simon Mago sarebbe stato capace per creare carne e sangue. Però, nel mito del Golem anziché le metamorfosi dell'aria intervengono metamorfosi magiche della terra mediante gli "alfabeti" contenuti nel libro Yetsirah. E' per questo che Scholem ha ritenuto che questo mito non sia tanto legato ad idee alchimistiche (come quella dell'homunculus di Paracelso) quanto all'idea che l'uomo sia capace di creare una figura umana dotata di poteri tellurici a partire da capacità magiche desunte dalla manipolazione di nomi e lettere intese come la "segnatura" del Creato. 

Della lunga e complessa speculazione sul Golem — che contiene evidenti elementi magici — ci preme sottolineare la discussione kabbalistica circa la "fattibilità" della ricreazione del Golem e circa i rischi che essa implica e di cui è una metafora l'idea della pericolosità del Golem dovuta alla sua tendenza a crescere illimitatamente e a sfuggire al controllo del suo creatore umano. Accanto all'allarme per i rischi materiali inerenti alla creazione del Golem, compare nella tradizione kabbalistica un motivo di allarme ancora più profondo: si tratta dell'idea che una creazione del Golem che riesca non soltanto sul piano simbolico ma anche sul piano materiale darebbe inizio alla morte di Dio. Il mito del Golem si ricollega così al problema del politeismo e del culto delle immagini e riemerge proprio all'interno della Kabbalah l'altro polo della tensione essenziale del pensiero ebraico: la difesa del monoteismo. E' affascinante constatare che la Kabbalah ritrovi con la massima forza il senso di questa difesa, proprio mentre affonda, fino ai confini della magia, il suo sguardo sui poteri soprannaturali e speciali che l'uomo ha di trasformare la natura e che gli derivano dalla sua origine divina. Su questo punto i kabbalisti di Safed sono estremamente chiari e energici. Mosé Cordovero, nel suo commento al libro Yetsirah, dirà che «nessuno può pensare che questa capacità di ottenere un risultato pratico mediante questo libro sussista anche ora. Poiché non è così: le fonti magiche sono invece ostruite e la Kabbalah su questo punto è scomparsa.» E Joseph Aschkenazi di Safed dirà che «la capacità di dare l'anima reale, neshamah, non sta nella forza dell'uomo, poihcé deriva dalla parola di Dio.» 

E' suggestivo rileggere il libretto di Wiener in questa chiave. Scopo principale di Wiener è di abbattere ogni pregiudizio etico che ostacoli il programma dell'automazione. L'argomentazione è soltanto apparentemente scientifica ma propone un'interpretazione metafisica del senso dell'atto creativo. «Ho affrontato — dice Wiener — il tema dell'attività creativa, da Dio alla macchina, entro un solo sistema di concetti. La macchina […] è la controparte moderna del Golem del Rabbino di Praga. Poiché ho insistito nel discutere l'attività creativa entro un solo punto di vista e non parcellizzandola in pezzi separati appartenenti rispettivamente da Dio, all'uomo e alla macchina, non penso di essermi permesso nulla più che la normale libertà di un autore chiamando questo libro Golem & God, Inc.» Dio, uomo e macchina sono per Wiener tre momenti di un'unica attività creativa che pervade l'Universo e alla quale non ha senso porre limiti: il profeta della cibernetica ritrova proprio nel mito del Golem la forza per abbattere i limiti alla capacità creativa dell'uomo. Le latenze teologiche se non mistiche che sono presenti dietro le incerte argomentazioni filosofico-scientifiche di Wiener sono evidenti. Parafrasando Cordovero si può dire che, per Wiener, le fonti magiche sono finalmente disostruite! 

Una ricerca accurata del ruolo del tema della "creazione" nella storia della scienza potrebbe mostrare come molte eleganti impalcature "scientifiche" nascondano aspirazioni mitico-mistiche che, senza tale ricoprimento, sarebbero impresentabili nella buona società della razionalità e dell'oggettivismo. Oggi si è molto attenti all'"abbigliamento". Solo pochi anni fa lo si era di meno e capitava di dire senza reticenze che “il maggior problema delle scienze biologiche è senza dubbio quello che si riferisce alla trasformazione della materia morta in materia vivente.” Non è Paracelso o Simon Mago che scrive ma un illustre chimico italiano dell'inizio del secolo, Giacomo Ciamician

Nulla di male. La scienza ha sempre avuto una metafisica influente. Spesso ha anche una mistica influente. Molti dei presupposti ideologici di taluni programmi scientifici (come quelli odierni dell'intelligenza artificiale e dell'ingegneria genetica) non sono altro che una ripresa di temi e credenze mitologici e ai confini della magia nell'illimitata capacità creatrice dell'uomo: essi trovano alimento proprio in quelle idee mistiche che il razionalismo scientifico, che opera qui come un travestimento, si propone con tanto clamore di combattere e distruggere. 

Un brano di Scholem tocca proprio alcuni di questi aspetti e li collega al problema del significato:
«Un giudaismo vivo, quale che sia la sua concezione di Dio, dovrebbe opporsi risolutamente al naturalismo. Dovrebbe insistere sul fatto che la nozione così diffusa di un mondo in progresso e che sarebbe lui stesso la sorgente di una libera produzione di significato — il che, di tutti i fenomeni, è il più difficile a afferrare — può evidentemente essere proposta, ma non può seriamente essere sostenuta. Certamente, l'ipotesi secondo cui il mondo è il luogo di un'assenza del significato è ricevibile, a condizione tuttavia che si trovi un solo uomo che sia pronto ad accettarne le conseguenze. La frivolezza filosofica con la quale numerosi biologi cercano di ricondurre le categorie morali a delle categorie biologiche è una delle caratteristiche più oscure del clima intellettuale della nostra epoca ma non potrebbe ingannarci circa il carattere disperato di una simile impresa. E' sufficiente studiare attentamente uno soltanto di questi lavori per percepire gli equivoci, le petizioni di principio, le latenze teologiche, le incrinature e le fessure di questo genere di edifici intellettuali. Non sarà mai possibile dimostrare l'ipotesi secondo la quale il mondo ha un senso mediante estrapolazioni condotte al di fuori di contesti di significato determinati, perché questa convinzione è la base della fede nella creazione. Questa ipotesi si situa pertanto al di là delle teorie fisiche incessantemente in evoluzione e che, per la loro stessa natura, non hanno nulla da dire circa l'origine degli elementi ai quali vogliono alla fine far risalire tutte le evoluzioni.»58
Siamo così ricondotti al tema del significato e del suo carattere univoco o molteplice e al tema del postulato di oggettività di cui il pensiero scientifico sembra non poter fare a meno, esiliando nel regno dell'irrazionale tutto ciò che non appare immediatamente riconducibile all'oggettività. Su questo aspetto il grande storico della scienza Alexandre Koyré ha scritto alcune considerazioni penetranti nei suoi Studi Newtoniani, il cui parallelismo con le posizioni di Scholem è sorprendente:
«Vi è qualcosa di cui Newton deve essere considerato responsabile — o, per meglio dire, non soltanto Newton, ma la scienza moderna in generale: è la divisione del nostro mondo in due. Ho detto che la scienza moderna aveva abbattuto le barriere che separavano i Cieli e la Terra, che essa unì e unificò l'Universo. Ciò è vero. Ma essa lo fece sostituendo al nostro mondo di qualità e di percezioni sensibili, mondo nel quale viviamo, amiamo e moriamo, un altro mondo: il mondo della quantità, della geometria reificata, mondo nel quale, benché vi sia posto per ogni cosa, non ve ne è per l'uomo. Così il mondo della scienza — il mondo reale — si allontanò e si separò interamente dal mondo della vita, che la scienza è stata incapace di spiegare — anche con una spiegazione dissolvente che ne farebbe un'apparenza "soggettiva". In verità questi due mondi sono tutti i giorni — e sempre più — uniti dalla praxis. Ma per quanto riguarda la theoria sono separati da un abisso. Due mondi: il che vuol dire due verità. O nessuna verità affatto. E' in questo che consiste la tragedia dello spirito moderno che "risolse l'enigma dell'Universo", ma soltanto per sostituirlo con un altro: l'enigma di se stesso.»59
Vediamo ora come Scholem, mettendo a confronto pensiero razionale e pensiero mistico-religioso nel contesto della odierna "crisi della ragione", abbia sottolineato efficacemente un aspetto originale e attuale del pensiero kabbalistico, la visione del mondo come un intreccio di infiniti linguaggi:
«Alla sopravvalutazione della ragione, che ha spesso procurato ai "razionalisti" e ai "mistici" un terreno d'incontro, si oppone uno scetticismo pessimista che insiste sui limiti della ragione dopo averli spesso esagerati. Qui rivelazione e ragione si presentano come due poli opposti, ma non è possibile eludere il fatto centrale che la rivelazione deve essere accessibile alla ragione umana. Anche su questo punto i kabbalisti rappresentano coloro per i quali esiste una affinità specifica fra creazione e rivelazione poiché le concepiscono entrambe come il linguaggio attraverso cui l'Essere divino comunica se stesso. Sono i kabbalisti che hanno percepito che il pensiero razionale costituiva un fatto linguistico. […] Che lo slancio creatore sia di natura linguistica e che, di conseguenza, una moltitudine infinita di linguaggi inondi il mondo, che tutte le strutture che noi vi scopriamo costituiscano aspirazioni al linguaggio — tutto ciò può essere considerato come una formulazione stravagante della base comune della creazione e della rivelazione, ma è una tesi che, anche sotto questa forma provocatoria, non ha affatto perso significato per noi.»60
D'altra parte, la vacuità dell'oggettività del visibile trova la sua espressione etica nel rifiuto del culto delle immagini:
«L'aspetto di visibilità del mondo non sarebbe pura vanità? Ciò che può essere rappresentato non sarebbe altro che una semplice approssimazione, incapace di esprimere la creazione? La creazione essa stessa non è a suo modo, allo stesso modo del Creatore, al di là di ogni rappresentazione? La tesi di un mondo al di là della rappresentazione, che ha sconvolto la fisica del XX secolo altrettanto quanto lo idee di Copernico e Newton lo hanno fatto al loro tempo, non corrisponde forse alla nozione di creazione che risulta dall'idea dell'unicità di un Dio impossibile a rappresentarsi? Il nome di Dio, che i mistici hanno scoperto in tutta la creazione e in tutta la rivelazione, esclude ogni rappresentazione, che sia compreso come trasmesso da Dio alla sua creazione o comunicato in essa. Questa veduta spoglia il mondo nella sua visibilità del suo potere di evidenza; dire che il mondo è creato non può essere detto che per metafora.»61
Ma, per quanto attiene questo riferimento alla scienza contemporanea, l'osservazione di Scholem richiederebbe qualche specificazione. Se gli sviluppi rivoluzionari della fisica del XX secolo avessero messo in discussione il concetto di rappresentabilità univoca e di oggettività, la crisi potrebbe avere soltanto una via di uscita radicale. Difatti, la scienza, così come la conosciamo, non può fare a meno dell'oggettività. Farne a meno farebbe crollare uno dei suoi capisaldi e cioé la convinzione di offrire leggi certe, universali, eterne, basate sul principio della ripetibilità dei fenomeni descritti a partire da certe condizioni iniziali ben determinate. La fatica immensa con cui la scienza contemporanea fa fronte al problema di disfarsi del determinismo ne è una testimonianza: il massimo che essa riesce a consentire su questo terreno — e quanto di malavoglia! — è di sostituire la certezza di processi assolutamente determinati con un indebolimento della certezza, ma niente più. La condizione minima per consentire questo indebolimento è comunque almeno una precisa determinazione del campo dell'indeterminazione della descrizione. 

L'alternativa a questo attaccamento all'oggettivismo sarebbe che la scienza accettasse una conclusione radicale: e cioé che essa è soltanto uno degli infiniti linguaggi che inondano il mondo, rinunciando alla pretesa di conservare un posto privilegiato nell'insieme delle conoscenze.

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NOTE
  1. Isis Current Bibliography. La rivista Isis è l'organo della History of Science Society.
  2. Fra i più recenti vanno menzionati i contributi di Tony Lévy. Si vedano, fra l'altro, le pagine dedicate a Crescas in: T. LÉVY, Figures de l'infini, Les mathématiques au miroir des cultures, Paris, Editions du Seuil, 1987. E inoltre: T. LÉVY, "Science et tradition dans le monde médiéval: Hasdaï Crescas (1340-1412), critique d'Aristote", in Le Moyen Age et la Science (B. Ribémont ed.), Paris, Klincksieck, 1991, pp. 133-151; T. LÉVY, "Gersonide, le Psuedo-Tusï, et le postulat des parallèles: Les mathématiques en hébreu et leurs sources arabes", Arab. Sci. Phil., 1992, 2, pp. 39-82.
  3. Assai importante in questa direzione è stata l'opera di recupero, pubblicazione e traduzione di numerose opere scientifiche di autori ebrei spagnoli (fino alla espulsione dalla Spagna alla fine del Quattrocento) da parte del Prof. José M.a Millás Vallicrosa.
  4. Per questo tema si veda anche il paragrafo introduttivo di: G. ISRAEL, "E' esistita una scienza ebraica in Italia?", Atti del Convegno su "Cultura ebraica e cultura scientifica in Italia", (Roma, Ottobre 1992), in pubblicazione; e inoltre: G. ISRAEL, "Politica della razza e persecuzione antiebraica nella comunità scientifica italiana", in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa (Atti del Convegno nel cinquantenario delle leggi razziali, Roma, 17-18 Ottobre 1988), Roma, Camera dei Deputati, 1989, pp. 123-162.
  5. B.C. GOODWIN, Biology and Meaning. Towards a Theoretical Biology (C.H. Waddington ed.), Edinburgh Univ. Press, 1972.
  6. Così, ad esempio: « Egli fa germogliare l'erba per il bestiame /e le piante perchè servano all'uomo,/ facendo uscire dalla terra il nutrimento/ ed il vino che rallegra il cuore dell'uomo/ e l'olio che gli fa risplendere il volto/ ed il pane che sostenta il cuore dei mortali./ Egli ha fatto la luna per le stagioni;/ il sole conosce il suo tramonto./ Tu mandi le tenebre e viene la notte, / nella quale le bestie della foresta si muovono./ I leoncelli ruggono dietro le prede/ e chiedono il loro pasto a Dio./ Quanto sono numerose le tue opere o Signore!/ Tu le hai fatte con sapienza;/ la terra è piena delle tue ricchezze./ […] Tutti sperano in te/ che tu dia a ciascuno il cibo a suo tempo/ tu lo dai ed essi lo raccolgono:/ tu apri la tua mano e si saziano di beni./ Nascondi la tua faccia e sono smarriti.» (Salmo 104, 14…)
  7. S. ISRAEL, Giobbe, Prometeo in Giudea (inedito). Di questo saggio sono state pubblicate le seguenti versioni ridotte: S. ISRAEL, "Hiob, Prometheus in Judäa", Antaios, Bd. IX, No. 4, November 1967, pp. 369-384; S. ISRAEL, "Giobbe, Prometeo in Giudea", in Miscellanea di Studi in memoria di Dario Disegni, Firenze, Giuntina, 1969, pp. 107-122.
  8. G. SCHOLEM, Zur Kabbalah und ihrer Symbolik, Zürich, Rhein-Verlag, 1960 (trad. it. La Kabbalah e il suo misticismo, Torino, Einaudi, 1980, p.3-4).
  9. Appaiono quindi scarsamente fondati i tentativi di mostrare un'analogia di orientamento fra la scienza moderna e il filone del pensiero ebraico rappresentato dalla Kabbalah. Si consideri, ad esempio, il volume (peraltro molto bello) di A. STEINSALTZ, La rose aux treize pétales, Introduction à la Cabbale et au judaïsme, Paris, A. Michel, 1989, in cui la descrizione delle visioni cosmologiche e cosmogoniche della Kabbalah è sviluppata con l'uso di termini, concetti e immagini della scienza moderna. Il rapporto fra spirituale e materiale è descritto entro contesti concettuali della filosofia della scienza moderna, con l'uso di termini del tutto incongrui come "determinismo" e "meccanicismo"; o addirittura stabilendo improbabili parallelismi, come quello fra talune nozioni della Kabbalah e quelle di struttura algebrica astratta, di sistema meccanico e di "feed-back". Tutto ciò può rispondere al proposito di rendere più comprensibile e accettabile la Kabbalah al pensiero moderno, o di elaborare una teologia compatibile con il pensiero scientifico, ma ha poco a che fare con le caratteristiche specifiche del pensiero kabbalistico che esce stravolto da un siffatto imbellettamento. Un approccio analogo può trovarsi anche in: A. SAFRAN, Sagesse de la Kabbale, Paris, Stock, 1986 (trad. ital. Saggezza della Kabbalah, Milano, Mondadori, 1990).
  10. L'esempio forse più caratteristico in tale direzione è rappresentato dalla psicanalisi freudiana. Colpisce il tono marcatamente "kabbalistico" della seguente osservazione di Freud in cui il valore dell'ermeneutica è affermato attraverso un'apologia del "logos" e della "magia": «Il profano troverà difficile comprendere come disturbi patologici del corpo e della psiche possano venir eliminati attraverso le "sole" parole del medico. Egli penserà che si pretende da lui la fede nella magia. Non ha tutti i torti; le parole dei nostri discorsi quotidiani non sono altro che magia sbiadita. Ma sarà necessario prendere una via indiretta, più ampia, per far capire come la scienza riesca a restituire alla parola almeno una parte della sua primitiva forza magica.» (S. FREUD, "Trattamento psichico (trattamento dell'anima)", 1890, in Opere, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 93).
  11. Nella tradizione medica ebraica, che ha antiche e profonde origini, il problema della salute e della malattia non è mai visto esclusivamente come un problema meramente "oggettivo" e materiale, ma è considerato come un problema simultaneamente e indissolubilmente corporeo e spirituale. Ad esempio, nel Mishneh Torah di Maimonide è inserito un capitolo sui "Principi di dietetica, di igiene e di saper vivere", all'interno di una sezione intitolata "Delle attitudini morali e della scienza dei costumi". E Maimonide osserva: «Avere un corpo sano e intatto significa seguire le vie di Dio, perché non si potrebbe essendo malati acquisire alcuna delle nozioni o conoscenze che formano la conoscenza di Dio.» E ancora: «Come il Saggio si distingue per la sua saggezza e il suo carattere che lo tirano fuori dalla volgarità, così è necessario che egli sia riconoscibile nei suoi atti, nel suo modo di mangiare, di bere, di copulare, di fare i suoi bisogni, di parlare, di camminare, di vestirsi, di sbrigare i suoi affari o di commerciare.» (si veda, ad es. la trad. francese: M. MAIMONIDE, Le livre de la connaissance, Paris, Presses Universitaires de France, 1981, p. 126, 137).
  12. Per usare la terminologia di T. Kuhn. 
  13. Su questi temi si veda: S. ISRAEL, "Problemi fondamentali dell'ebraismo. La lotta contro il mito", Ha-Makor, N. 1 Gennaio-Aprile 1954, pp. 24-35; N. 2, Maggio- Dicembre 1954, pp. 9-23. 
  14. La letteratura kabbalistica possiede anche il suo "primo" testo: si tratta del Sefer Ha-Bahir (redatto attorno al 1180). Citiamo, fra le varie traduzioni, quella francese: Le Bahir, Le Livre de la Clarté, Paris, Verdier, 1983.
  15. H. GRAETZ, "Ursprung der Kabbala", in Geschichte der Juden, 4 ed., Leipzig, 1980, Vol. 7, pp. 385-402. 
  16. La critica di Scholem investe anche il punto di vista di Neumark, che è l'unico storico, assieme a Graetz ad essersi occupato sistematicamente della Kabbalah prima di Scholem (si veda D. NEUMARK, Geschichte der jüdischen Philosophie des Mittelalters, Vol. 1, Berlin, 1907; l'ed. in ebraico del 1921 contiene un capitolo rielaborato sulla Kabbalah (pp. 166-354)). Per questa critica, si veda: G. SCHOLEM, Ursprung und Anfänge der Kabbala, Berlin, Walter de Gruyter, 1962 (trad. inglese Origins of the Kaballah, Princeton University Press, 1987); e inoltre G. SCHOLEM, Kabbalah, Jerusalem, Keter Publ. House, 1974; trad. it. La Cabala, Roma, Ed. Mediterranee, 1982). Per un punto di vista più recente, che mette in discussione alcuni dei punti di vista di Scholem e rivaluta parzialmente le analisi di Graetz e Neumark, si veda: M. IDEL, Kabbalah, New Perspectives, New Haven, Yale University Press, 1988.
  17. La questione dei rapporti con il pensiero religioso cristiano, che da luogo in certi casi a vere e proprie forme di sincretismo religioso, è certamente un aspetto fondamentale per comprendere lo sviluppo della Kabbalah. Significativo è il fatto che questo sviluppo si accompagna a una violenta reazione nei confronti delle forme di pensiero religioso razionalista: negli ambienti ebraici ciò si manifesta nel rifiuto del pensiero di Maimonide, le cui opere vengono persino date alle fiamme in alcune piazze della Provenza. Di non minore importanza, per gli sviluppi della Kabbalah spagnola, sono i rapporti con il pensiero religioso musulmano. 
  18. Si veda alla nota 16. 
  19. Si veda, in merito: M. IDEL, L'expérience mystique d'Abraham Aboulafia, Paris, Editions du Cerf, 1989; M. IDEL, Maïmonide et la mystique juive, Paris, Editions du Cerf, 1991.
  20. Si veda G. SCHOLEM, Zur Kabbalah … , cit. alla nota 8 (in particolare il Cap. 1, "Autorità religiosa e misticismo").
  21. Si veda ancora G. SCHOLEM, Zur Kabbalah …, cit., al Cap. 4, "Tradizione e nuova creazione nel rito dei kabbalisti.
  22. «Quando il re Salomone "penetrò nelle profondità del giardino delle noci", come è scritto: “Sono disceso in un campo di noci” (Cantico dei Cantici, VI, 11), raccolse un guscio di noce e, esaminandolo, vide un'analogia fra i suoi strati e gli spuriti suscitati dai desideri degli umani…» (Si veda Le Zohar, Le Livre de la Splendeur (Extraits choisis et présentés par G. Scholem), Paris, Editions du Seuil, 1980. Torneremo su questo brano nel seguito, con riferimenti più precisi.
  23. Cit. in G. SCHOLEM, Zur Kabbalah … , cit. alla nota 8. 
  24. Già nel II° secolo Rebbi Meir osservava che “se ometti una lettera distruggi il mondo intero”. E' evidente come questa affermazione apra la strada ad uno sconfinamento verso la magìa.
  25. Questa idea fu ripresa anche da Filone Alessandrino. 
  26. Per un approfondimento di questi temi si veda: G. SCHOLEM, "Der name Gottes und die Sprachtheorie der Kabbala", Eranos-Jahrbuch, 39, 1970, pp. 243-99 (trad. francese, assieme ad altri saggi, in: G. SCHOLEM, Le Nom et les symboles de Dieu dans la mystique juive, Paris, Editions du Cerf, 1988.
  27. Per una discussione del significato della Shekihnah, si veda: G. SCHOLEM, Von den mystischen Gestalt der Gottheit. Studien zu Grundbegriffen der Kabbala, Zürich, Rhein-Verlag, 1962 (trad. francese, La mystique juive, les thèmes fondamentaux, Paris, Editions du Cerf, 1985). Si veda anche: Lettres sur la Sainteté, Le secret de la relation entre l'homme et la femme dans la cabale (étude préliminaire, traduction et commentaires par C. Mopsik, suivi de "Métaphores et pratiques sexuelles dans la cabale par M. Idel), Paris, Verdier, 1986. 
  28. Per un'introduzione alla teoria delle Sefiroth, si veda: A. STEINSALTZ, La rose aux treize pétales… cit. alla nota 9; A. SAFRAN, Sagesse de la Kabbale, cit. alla nota 9; G. SCHOLEM, Kabbalah, cit. alla nota 16. 
  29. L'immagine della Torah scritta come "luce bianca" che assume forma in virtù della Torah orale ("fuoco nero") è dovuta a Izhak il Cieco, uno dei primi kabbalisti. 
  30. Si veda: Le Zohar, Le Livre de Ruth (traduit, annoté et introduit par C. Mopsik), Paris, Verdier, 1988.
  31. La metafora del significato come una noce composta di un guscio esterno, di due bucce delicate all'interno e di un gheriglio fu usata anche dal mistico cristiano Gioacchino da Fiore (verso la fine del secolo XII).
  32. L'osservazione è contenuta nel Derisha he-'inyané Mal'akhim. Questo punto di vista verrà ripreso e sviluppato dal kabbalista italiano del Seicento Menahem Azariah di Fano. Si tratta di una tematica che si ricollega a un aspetto cui abbiamo sopra accennato, e cioé alla visione della storia del popolo d'Israele come simbolo del processo cosmico. Secondo Scholem il mito dell'esilio e della redenzione (sopratutto sotto la spinta dell'evento drammatico rappresentato dalla espulsione degli Ebrei dalla Spagna nel 1492) trova la sua espressione della teoria della Kabbalah luriana che cerca di spiegare il mistero della creazione del mondo a partire dal nulla come un processo di autocontrazione di Dio (Tsimtsum), che è inteso a lasciar posto alla formazione del mondo terreno. L'autocontrazione di Dio rappresenterebbe un processo cosmico corrispondente all'esilio terreno del popolo ebraico. La dottrina dello Tsimtsum ebbe un forte influsso sulla filosofia di Schelling. Non ci soffermeremo su questi temi, pur interessantissimi, perche' fuoriescono dal nostro argomento principale. Per un'ampia analisi si veda: G. SCHOLEM, "Über einige Grundbegriffe des Judentums", Frankfurt, Suhrkamp, 1977, p. 9-52 (trad. francese: "La création à partir du néant et l'autocontraction de Dieu", in G. SCHOLEM, De la création du monde jusqu'à Varsovie, Paris, Editions du Cerf, 1990, p. 32-59).
  33. Cit. da Hayim Joseph David Azulai nel suo Dvash le-Fi. 
  34. G. SCHOLEM, "Alchemie und Kabbala. Ein Kapitel aus der Geschichte der Mystik", Monatsschrift für Geschichte und Wissenschaft des Judentums, 69, 1925, pp. 13-30, 95-110 (trad. francese: "Alchimie et Kabbale", in G. SCHOLEM, De la création du monde jusqu'à Varsovie, cit. alla nota 32, pp. 99-168).
  35. Si è già visto come la metafora dei quattro strati della noce compaia anche nel pensiero di Gioacchino da Fiore (nota 31). 
  36. In particolare, è noto l'influsso del pensiero di Abraham Abulafià su quello di Pico della Mirandola. Abulafià era nativo di Zaragoza in Spagna e, dopo un soggiorno a Barcellona, si propose di venire in Italia per insegnare la Kabbalah al Papa. Giunse nel palazzo papale di Soriano nel Cimino, nonostante le diffide, ma, nell'istante in cui entrò, il Papa morì improvvisamente. Fu imprigionato, ma riuscì a fuggire nel trambusto. Negli anni successivi peregrinò per l'Italia (soggiornando in particolare in Sicilia) e ebbe così un considerevole influsso sulla formazione della Kabbalah cristiana. Numerosi manoscritti di Abulafià furono tradotti e costituirono oggetto di studio.
  37. E' questo un punto che differenzia in modo netto il pensiero di Filone Alessandrino dal pensiero kabbalistico. 
  38. Si veda alla nota 24. 
  39. Nell'alfabeto ebraico ogni lettera ha un valore numerico. Pertanto, si può attribuire ad ogni parola un valore numerico che è la somma dei valori numerici delle lettere. L'accostamento di parole aventi lo stesso valore numerico è una delle tecniche fondamentali (ghematria) della Kabbalah per scoprire delle identità di significato nascoste. 
  40. M. IDEL, Maïmonide et la mystique juive, cit. alla nota 19.
  41. Fra le numerose traduzioni, citiamo: M. MAIMONIDE, Le guide des égarés, Paris, Verdier, 1979.
  42. P.S. LAPLACE, Essai philosophique sur les probabilités, Paris, 1825 (5 ed.). 
  43. J. FOURIER, Théorie analytique de la chaleur, Paris, Firmin-Didot, 1822.
  44. N.BOURBAKI, "L'architecture des mathématiques", in Les grands courants de la pensée mathématique (ed. F. Le Lionnais), Cahiers du Sud, 1948, pp. 35-47. 
  45. G. SCHOLEM, Zur Kabbalah …, cit. alla nota 8.
  46. Zohar, I, 19b-20 (trad. francese Le Zohar, Tome I, Paris, Verdier, 1988, p. 114). 
  47. A.O. LOVEJOY, The Great Chain of Being. A Study on the History of an Idea (William James Lectures on Philosophy and Psychology, 1932-33), Harvard University Press, 1936 (trad. ital. La Grande Catena dell'Essere, Milano, Feltrinelli, 1966).
  48. Ibidem, p. 152. 
  49. Lettera di Leibniz contenuta nella raccolta di Koenig relativa alla controversia sul principio di minima azione di Maupertuis. Cit. anche in FLOURENS, Analyse raisonnée des travaux de Cuvier, 1841 e in BUCHENAU, CASSIRER, Leibniz: Hauptschriften zur Grundlegung der Philosophie, II, pp. 556-559.
  50. Su questo punto si veda, ad esempio: C.B. BOYER, The History of the Calculus and its Conceptual Developments, New York, Dover, 1959 (rist. inalterata della prima ed., 1949).
  51. G. SCHOLEM, Zur Kabbalah …, cit. alla nota 8, p. 98 della trad. ital. 
  52. Il trad. ital. osserva: “Ossia gli atomi come ’ideai”. V. l'ed. cit. alla nota seguente. 
  53. ARISTOTELE, Opere, Vol.4, Bari, Laterza, 1983, p. 9.
  54. N. WIENER, God & Golem, Inc., A Comment on Certain Points where Cybernetics Impinges on Religion, The MIT Press, Cambridge, Mass., 1964. 
  55. G. SCHOLEM, Zur Kabbalah …, cit. alla nota 8. Si veda anche il recente volume: M. IDEL, Le Golem, Paris, Editions du Cerf, 1992. 
  56. La Neshamah è la forma superiore di anima nella tripartizione delle forme dell'anima che è caratteristica della tradizione kabbalistica. La prima forma elementare di anima è Nefesh, o "azione", la quale corrisponde al mondo dell'azione (Asiyàh), ed è una sorta di anima animale. Il secondo livello dell'anima è Rua'h o "parola", corrispondente al mondo della formazione (Yetsiràh) ed è una sorta di anima spirituale. Il livello superiore è costituito dalla Neshamah o "pensiero", che corrisponde al mondo della creazione (Beri'ah). A questa tripartizione viene talora aggiunto un quarto livello, quello della 'Haya, che corrisponde all'azione delle Sefiroth nel mondo dell'emanazione (Atsiluth), e anche un quinto, la Ye'hida corrispondente al nucleo più segreto della scintilla divina (En- Sof). Sulla strutturazione del cosmo in "mondi", si veda quanto già detto sopra.
  57. Bereshit Rabbah, 24, § 2 e 14, § 8.
  58. G. SCHOLEM, Fidelité et utopie, Paris, Calmann-Lévy, 1978, pp. 246-7.
  59. A. KOYRÉ, Etudes newtoniennes, Paris, Gallimard, 1968, pp. 42-3.
  60. G. SCHOLEM, Fidelité et utopie, cit. alla nota 58, pp. 248-9.
  61. G. SCHOLEM, Ibidem, p. 249.
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Giorgio Israel (Roma, 6 marzo 1945 – Roma, 25 settembre 2015) è stato uno storico della scienza ed epistemologo italiano.Membro della Académie Internationale d'Histoire des Sciences e professore dell'Università di Roma La Sapienza, è stato autore di più di 200 articoli scientifici e 30 volumi, nei quali ha esplorato il ruolo della scienza nella storia della cultura europea e ha condotto una critica dell'idea di razionalità matematica e del meccanicismo.
È stato direttore del Centro Interdipartimentale di Ricerca in Metodologia delle Scienze dell'Università “La Sapienza” dal 2001 al 2006 e ha diretto il Corso di Perfezionamento in Storia della Scienza (fondato da Giorgio Tecce) dal 1985 al 1987. I suoi corsi universitari hanno spaziato su temi di matematica (algebra, geometria, teoria dei campi, modellistica matematica e teoria qualitativa delle equazioni differenziali ordinarie, teoria dei giochi) e soprattutto di storia della matematica e storia della scienza.
È stato membro della International Commission on the History of Mathematics dal 1991 al 1993 e quindi membro dello Executive Committee della medesima commissione dal 1994 al 2004. Membro corrispondente dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences dal 1993 al 1997, ne è divenuto membro effettivo a partire dal 1997. È stato “chercheur associé” del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique, Francia) dal 1988 al 1989 e borsista senior del CNR presso l'École Normale Supérieure (Parigi) nel 1990. È stato directeur d'études associé presso l'École des Hautes Études en Sciences Sociales (Parigi) negli anni 1995, 1998, 2001; professore invitato presso l'Université Paris I – Panthéon Sorbonne (2002) e presso l'Université du Sud Toulon-Var (2004). Ha tenuto numerose conferenze in Italia e all'estero, in particolare in Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna, Portogallo, Stati Uniti, Israele, Svizzera, Sud Africa.
È stato direttore responsabile della Rivista di Storia della Scienza dal 1993 al 1997 e membro del comitato scientifico di numerose riviste, tra cui Bollettino di Storia delle Scienze Matematiche, Revue d'Histoire des Mathématiques, LLULL (Revista de la Sociedad Española de Historia de las Ciencias y de las Técnicas), Science et Techniques en Perspective, Alliage, Electronic Journal of the History of Probability and Statistics. È stato membro del Comitato Scientifico del XIXth International Congress of History of Science (Zaragoza, Spagna 1993), nel quale ha organizzato un simposio sulla matematizzazione delle scienze biologiche, economiche e sociali. Ha organizzato un workshop su “Berlin as a centre of mathematical activity” nell'ambito dell'International Congress of Mathematicians (Berlino, 1998).
Ha fatto parte della commissione per il riordino del fondo d'archivio Vito Volterra presso l'Accademia Nazionale dei Lincei e del Comitato Nazionale per le celebrazioni in onore di Enrico Fermi. Ha diretto, dal 1976 fino al 2012 numerosi programmi di ricerca su temi di storia della matematica dell'Università di Roma “La Sapienza”, del Ministero della Pubblica Istruzione, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, e ha diretto l'unità di Roma dei Progetti di ricerca di interesse nazionale (PRIN) nell'area della storia della matematica.
Ha svolto un'intensa attività di impegno civile e politico, dapprima nell'ambito della sinistra e poi su posizioni autonome, collaborando a numerosi quotidiani e periodici tra cui (in periodi diversi) Il Messaggero, Il Mattino, Il Foglio, Avvenire, Paese Sera, L'Unità, Il Giornale, Libero, L'Osservatore Romano, Tempi.


  • Di Giorgio Israel, si veda anche la mia pagina che riporta il suo articolo: La Kabbalah e la mistica dei numeri
  • Essenziale lettura è LA CABALA di Gershom Scholem, la cui traduzione italiana in formato PDF può essermi richiesta gratuitamente con email.