AN ANTHOLOGY OF THOUGHT & EMOTION... Un'antologia di pensieri & emozioni
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Thursday 9 November 2017

QUARTETTO INTROSPETTIVO

1. Psicologia e poesia

Esiste un particolare legame tra la psicologia, che è una scienza che analizza l'attività umana, e la poesia che n'è una delle più alte ed efficaci espressioni. È stato Freud il primo ad utilizzare un metodo scientifico per entrare nel funzionamento dei processi creativi. Arte e scienza sono entrambe impegnate ad intuire, e a conoscere, l'essenza del mondo e le sue leggi. Anche arte e nevrosi hanno qualcosa in comune: entrambe attingono energia dall'inconscio, luogo dove non esiste ancora la distinzione tra reale e fantastico. Questa dualità segna tanto il percorso psichico del nevrotico quanto quello dell'artista.

A differenziare poi sono i processi di trasformazione: in un caso si ha il sintomo, (disturbo senza senso e per di più anche fastidioso) nell'altro l'opera d'arte (simbolo vero di qualcosa di misterioso e sicuramente più appagante). Essere poeta significa, soprattutto, fare risuonare dietro le parole la parola primordiale, rianimata dal processo creativo. La poesia ha la possibilità, come l'inconscio, di dire l'"indicibile". Poco o niente, invece, la psicologia può dire sull'essenza della poesia, che compete alla sfera dell'estetico-artistico. Tuttavia, spesso essa si è lasciata tentare nel rintracciare nell'opera, i complessi personali dell'autore. Con la consapevolezza che l'opera d'arte, non essendo una nevrosi, si realizza quanto più si allontana dal dato biografico. Giustamente Jung afferma che "la causalità personale ha con l'opera d'arte la medesima relazione che ha il terreno con la pianta che gli cresce sopra". Solo immergendosi nella mitologia inconscia il poeta raggiunge una pienezza di senso che va oltre la singolarità sino a coinvolgere l'intera umanità. Proprio quando l'inconscio diventa esperienza, sposandosi con la coscienza del tempo, l'atto creativo rivela qualcosa dell'epoca nella quale si manifesta.

Aperto alle forze dell'inconscio, il poeta, per essere in grado di accedere al simbolico, deve in un primo tempo separare il reale dal fantastico. Il lavoro della trasformazione, che porta al simbolo, avviene nel preconscio, luogo di passaggio fra l'inconscio e il conscio. Il preconscio conserva i contenuti inconsci, e il linguaggio, che lì staziona e attende, sa e non sa. Per potersi enunciare nella forma accettata, si avvale delle funzioni del processo secondario, che trasforma i contenuti inconsci in parole. Il preconscio è un commutatore psichico che conserva le tracce delle sue prime esperienze costitutive. Esso è il luogo delle iscrizioni del linguaggio. Ogni parola che nasce è un'apertura all'ignoto.

La scrittura mette in scena il noto e l'ignoto.

La creazione si realizza, quando una parte del non detto comincia ad emergere. Così, s'inventa il proprio passato nel racconto, coprendo e rivelando. Il lavoro creativo mobilizza una violenza che a suo tempo non ha trovato parole per essere detta. La poesia rispetta la grammatica dell'inconscio: nello spazio creativo esperienze, ancora balbettanti, si possono articolare sino a diventare comunicazione. L'opera d'arte rappresenta la forma più elevata dell'esigenza di trasformare. Come dice Baudelaire: il poeta come il danzatore deve spezzarsi mille volte in segreto le ossa prima di presentarsi in pubblico
.
Le parole che sorgono sanno di noi ciò
che noi ignoriamo di loro

~René Char
2. Malinconia e poesia

[due sonetti in analisi]

Freud scorgeva nel fenomeno malinconico una somiglianza con il fenomeno del lutto e del rimpianto per qualcosa di perduto. Si tratterebbe di una perdita che oltrepassa la concretezza dell'esistenza e viene collocata, da parte di Freud, nell'ambito della vita pulsionale, nella libido in senso lato. Come sottolinea Adler il bambino nasce in una condizione di inferiorità, si sente inerme, privo di risorse e sarebbe destinato a una fine atroce se le sue disperate richieste di aiuto non fossero soddisfatte da parte di un Altro che si prende cura di lui (la madre o un qualsiasi care-giver presente). Seguendo il pensiero di Freud e di Adler possiamo concludere che la condizione di inferiorità e di fragilità originaria che sperimenta precocemente il bambino, accompagnata dal terrore dell'abbandono da parte del care-giver (o più precisamente life-giver) costituirà il modello per le future esperienze malinconico-depressive.

Secondo Freud nella relazione tra il soggetto e l'oggetto di investimento libidico il soggetto è secondario. Quando l'oggetto manca, l'impossibilità di riversare l'investimento libidico su di esso determina una mancanza interiora di carattere profondamente ontologico e d esistenziale nel soggetto che si esprime in una aspirazione continua e indistinta e in una ricerca spasmodica dell'Altro/Oggetto.

L'incompiutezza, allora, si presenta come caratteristica basilare della persona malinconica. L'individuo è lacerato tra il proprio desiderio libidico verso l'oggetto e l'impossibilità di investimento. Infatti, il dramma dell'innamorato si potrebbe ricercare in questo pattern inevitabile (in gradi diversi tra diversi individui) costruito sulla precoce esperienza della minaccia continua e allucinatoria di separazione-perdita che subisce il bambino il quale, senza poterla comprendere per mancanza di mezzi e di maturità, è costretto ad assimilare la tensione conseguente e costruire un proprio apparato psichico. L'essere umano sperimenta eternamente una specie di condizionamento "amoroso" e, in base dei caratteristici livelli raggiunti di individuazione, attiva i suoi pattern di incompiutezza aspirando di investire la sua libido verso se stesso (narcisista) o verso l'Altro irraggiungibile (innamorato, malinconico o depresso).

Quando l'animo malinconico si dispera, la patologia prende sopravvento, l'umore si altera profondamente, la tristezza si acuisce e si aggrava e la nera depressione, che paralizza l'autostima, riduce all'estremo la voglia di fare e di agire, elimina gioia e piaceri, introduce pensieri negativi, aggressivi verso se stesso o il mondo intero.

I due sonetti riportati qui di seguito descrivono poeticamente due diversi stati malinconici che esprimono la depressione in due forme diametralmente opposte: il primo, di Fazio degli Uberti, dipinge l'immagine nera di un'implosione interna, uno dei sette peccati dell'anima – l'accidia – la quale, insieme all'estrema bassa autostima, rende chiara l'immagine completa di una depressione storica del '300.

Il secondo sonetto invece, di Cino da Pistoia, riversa all'esterno la negatività senza limiti della malinconia strettamente connessa ai pensieri di morte:

Fazio degli Uberti (1300 Pisa-1367 Verona)

E IO ACCIDIA SO', TANTO DA NULLA

E io accidia so', tanto da nulla,
che grama son di qualunque m'addocchia.
Per gran tristizia abbraccio le ginocchia,
e 'l mento su per esse se trastulla.

Cotal me son qual m'era nella culla;
non ho più piè, ne più mani, nè occhia:
gracido e muso, come una ranocchia,
scalza ed ignuda, co' la carne brulla.

A me non val esempio de formica:
deh odi s' i' son pigra, che gustando
el menar della bocca m'è fatica.

Insomma, quando vengo immaginando,
dico tra' miei pensieri tristi e 'nfermi:
"I' nacqui al mondo sol per darm' ai vermi".




Cino da Pistoia (Pistoia 1265 - 1337)

TUTTO CHE ALTRUI AGGRADA ME DISGRADA

Tutto che altrui aggrada me disgrada,
ed emmi a noia e 'n dispiacere il mondo.
Or dunque che ti piace? I' ti rispondo:
Quando l'un l'altro spessamente agghiada.

E piacemi veder colpi di spada
altrui nel viso, e nave andare a fondo;
e piacerebbemi un Neron secondo,
e ch'ogni bella donna fosse lada.

Molto mi dispiace allegrezza e sollazzo,
e la malinconia m'aggrada forte;
e tutto dì vorrei seguire un pazzo;

e far mi piaceria di pianto corte,
e tutti quelli ammazzar ch'io ammazzo
nel fier pensier là dov'io trovo morte.
3. Memoria e poesia

Memoria è la capacità che hanno gli organismi viventi di conservare tracce del loro passato vissuto. Tramite i meccanismi della memoria spezzoni e tralci dell’esperienza passata, fissati nell’hardware biologico, si svegliano volta a volta oppure rimangono nell’oblio per lungo o per sempre. La memoria si esplicita in varie forme come la rievocazione o il riconoscimento e si estende dal breve tempo al lungo tempo attraverso diversi stadi come la ritenzione, il consolidamento e il recupero (se la traccia mnestica non ha subito il processo dell’oblio parziale o totale).

La reminiscenza è rievocazione o emersione di ricordi ma senza l’avvertire della loro precisa esistenza nel passato, risultando così come idea o pensiero nuovi.

L’inconscio collettivo, secondo Jung,
è una parte della psiche che si può distinguere in negativo dall’inconscio personale per il fatto che non deve, come questo, la sua esistenza all’esperienza personale. Mentre l’inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell'inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza all’ereditarietà.

(C. G. Jung, Il concetto di inconscio collettivo, 1936).
Nella poesia che riportiamo in seguito, il grande poeta rumeno Tudor Arghezi (1880-1967) mette insieme, come in un quadro di parole cromatiche e risuonanti, i ricordi, le memorie, le dimenticanze riscoperte e rievocate, le reminiscenze e soprattutto le tracce inconsce del proprio collettivo rumeno e più oltre, del collettivo cristiano o addirittura umano.

Reminiscenze
di Tudor Argezi

Vengono, eccoli, sempre da soli
Verso di me tutti i frantumi,
briciole slabbrate ed intere
di cose che stenti a capire.
Sono come li ho dimenticati
Da quando si sono addormentati:
un vecchio cimitero di bambole.
Ora cominciano a muoversi,
a prendere corpo dall’ombra
e da un brusio come d’alveare,
e si ricompongono a poco a poco.
Zoccoli con aureola d’angelo,
frammenti di icone che serbano, a rimorso,
di benedizione una traccia di maledizione,
una lacrima fissata in pittura,
una mano ferita, uno sguardo,
a campane, pare, lontane,
e qualche pagina di libro.
Un coccio risuscita un’anfora rotta.
Stormisce anche l’edera morta
E a una, destandosi, le voci spente
Mormorano pare e pare che ridano.
Mi vedo ora convitato alla Cena,
ora centurione nella persecuzione.
Provo di nuovo la camicia d’allora,
stretta, con una ferita d’allora,
e dimenticata
nel cuore del tempo, silenziosa.
E se porto la mano allo squarcio
Di non so quale lotta,
mi scivola molle sul sangue.
Là si raccoglie
Tutto ciò che da sé si aduna,
frammenti di Scrittura e schegge di luna.
Non posso ingannarmi.
Il gelo mi brucia; un blocco d’argento,
e nella nebbia le dita
diventano sopra le unghie carbone di ghiaccio.


[Traduzione di Marco Cugno]
-Da Cuvinte potrivite. Poesie 1927-1967
4. Morte e Poesia

Nel suo trattato L'Io e l'EsFreud afferma che mentre la pulsione di vita (Eros) "persegue il fine di complicare la vita, allo scopo naturalmente di conservarla, aggregando in unità sempre più vaste le particelle disperse della sostanza vivente." alla pulsione di morte (Thanatos o distruzione) "compete il compito di ricondurre il vivente organico allo stato privo di vita". Secondo Freud la pulsione di morte trova un "rappresentante nella pulsione di distruzione, alla quale l'odio indica la via."

"La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell'esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un'imminenza sovrastante specifica." afferma Heidegger nel suo Essere e Tempo (1927). Secondo Heidegger, l'angoscia davanti alla morte, non è una semplice paura davanti al decesso oppure una tonalità emotiva contingente, casuale e dipendente dall'individuo, come ad esempio la depressione. Heidegger postula una profonda differenza tra la vera angoscia davanti alla morte come un poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile -- e semplice paura davanti alla morte come semplice scomparire, puro cessare di vivere ovvero decesso.

L'angoscia davanti alla morte, sempre secondo Heidegger, "in quanto situazione emotiva fondamentale dell'esserci, ... costituisce l'apertura dell'esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine."

Di questa fine, devastazione, distruzione, Thanatos o “catastrofe” (questa è la parola usata nell’originale greco) scrive Konstantinos Kavafis nella poesia qui riportata in traduzione dal greco, per illustrare le riflessioni di Heidegger e Freud.

FINE (gr. Teleiomena)

Sommersi da paura e sospetti,
con la mente turbata e gli occhi impauriti,
ci consumiamo a progettare qualche modo
per scampare l'inevitabile
pericolo che così terribilmente ci minaccia.
Eppure sbagliamo, non è ciò che incombe:
falsi erano i segnali
(che non ascoltammo e non sentimmo bene).
Un'altra devastazione, neppure immaginata,
improvvisa, violenta, ci piomba addosso
e impreparati - il tempo è scaduto - ci porta via.


~Konstantinos Kavafis